Considerato il grande interesse per lo scorso numero, comprendo quanto voi, cari lettori, siate affamati di danza contemporanea e percepiate la necessità di dare lustro a questo bistrattato e frainteso linguaggio.
La danza contemporanea è in effetti la grande assente nelle programmazioni teatrali, nelle quali il balletto, la danza moderna e il musical la fanno da padroni. Le uniche situazioni in cui fa la sua apparizione sono i festival e le rassegne, da cui spesso si esce quasi ebbri per la quantità di spettacoli a cui si assiste in pochi giorni, per poi restare a bocca asciutta per il resto dell’anno. Chiaramente questo non consente alle compagnie di sopravvivere, e in effetti le poche che riescono a portare avanti il proprio lavoro e la propria ricerca hanno collaborazioni internazionali, altrimenti sarebbero costrette a chiudere i battenti. Quando ci chiediamo perché i programmatori non inseriscono nelle stagioni la danza contemporanea (ma esistono davvero in Italia programmatori colti e attenti anche alla ricerca, oltre che al botteghino e alla politica?), la risposta andrebbe cercata nell’analisi del tessuto culturale degli italiani, che oggi si trova ad un minimo storico che secondo me non ha ancora toccato il fondo, e questo è il semplice motivo per cui la ricerca del movimento sta lentamente svanendo dalle sale, perché nessuno, a parte gli addetti ai lavori, la va a vedere. Certo bisogna essere onesti e fare anche auto analisi, consapevoli dell’esistenza di una certa danza ego-riferita e autoreferenziale che effettivamente può allontanare il pubblico, con la sua identità criptica e a volte introversa che mette lo spettatore nella posizione di sentirsi stupido, perché non comprende ciò che vede. In realtà il linguaggio contemporaneo dovrebbe essere cronaca attuale dei tempi, dovremmo poterci riconoscere molto più facilmente in quello che la ricerca ci mostra oggi, che non nella storia di una giovane fanciulla che si strugge d’amore fino a morirne, per poi risvegliarsi in un gruppo di spettri vestiti di bianco. La nostra società però è un complesso risultato di una stratificazione di eventi e cambiamenti ancora da metabolizzare, per questo raccontarla richiede nuovi strumenti e un punto di vista volto all’osservazione di un sé più ampio, di un’anima collettiva, come la chiamerebbe Jung. Il corpo racconta e si racconta. Per farlo usa tutti gli strumenti a disposizione: quelli che provengono dal passato e altri, ancora tutti da scoprire.
La creazione contemporanea è un processo misterioso che si dipana con modalità sempre diverse, non esistono canoni, regole, protocolli: ogni coreografo, attraverso la propria esperienza e il proprio bagaglio, si costruisce una geografia di percorsi compositivi possibili che tuttavia non sedimentano mai in una forma definitiva. Ogni coreografo nel tempo plasma la propria cifra stilistica, sebbene non sia tanto importante rendersi riconoscibili e lasciare il proprio segno in ogni opera, quanto restare sempre al servizio dell’urgenza comunicativa che spinge alla creazione. I coreografi (ma potremmo anche chiamarli registi) che stimo di più in effetti sono proprio quelli che hanno dimostrato di non rimanere attaccati all’idea che hanno di sé, o alle aspettative del pubblico, ma sono capaci di restare abbastanza liquidi concedendo al processo creativo lo spazio per trasmutare, onorando il nucleo drammaturgico che sta alla base del lavoro.
Il ruolo del danzatore oggi è totalmente diverso rispetto a prima. Non più strumento passivo nelle mani del coreografo (che oggi non è più colui che arriva in sala con la coreografia da insegnare), ma elemento con una sua indipendenza creativa, in grado di produrre il proprio materiale e soprattutto di trovare un luogo in cui posarsi, in quella terra di mezzo tra la propria individualità umana e artistica e la probabilità che questa debba farsi da parte in alcuni momenti, per aprirsi all’ignoto, a ciò che sta nascendo, con la pazienza di un’abile ricamatrice. Il danzatore risponde alle domande che provengono dal coreografo, attraverso il corpo, restando nei confini che gli vengono assegnati di volta in volta, cercando semplicemente di essere vero, onesto e sincero nella propria danza e nella propria ricerca, nella piena fiducia nei confronti di sé stesso e della persona che lo sta guidando in questo viaggio. Entrambi non sanno esattamente cosa troveranno sul cammino, né dove approderanno, ed è proprio nel momento in cui ci si sente immersi nel mistero oscuro della creazione, che bisogna affidarsi e fidarsi. Questo è il fascino indiscusso di questo lavoro. La composizione contemporanea si dipana seguendo la intricate linee del dialogo tra i corpi e che ricorda la geometria della natura: una volta concepita segue il suo corso e i protagonisti della sua crescita, ossia il coreografo, il drammaturgo e i danzatori, non devono far altro che lasciarle lo spazio e il tempo necessari affinché si mostri spontaneamente, senza disturbarla, senza imporre o forzare, ma tenendo vigile l’intuizione per affondare le mani dove si percepisce la presenza del tesoro. A volte sembra di stare in stallo, si continua a sperimentare senza apparentemente ottenere risultati, finché poi all’improvviso tutto quell’estenuante lavoro porta finalmente alla visualizzazione di una soluzione. La strada è nuovamente lì.
Si tratta di un contesto in cui bisogna aver allenato sensibilità, conoscenza, consapevolezza, coraggio, centratura, pazienza, rispetto. È chiaro che una formazione specifica si impone per chiunque voglia intraprendere questa difficile missione. Ma sopra ogni altra cosa non bisogna aver paura di addentrarsi nel buio inesplorato dell’ignoto, abbandonarsi ad esso divenendo canali per l’incarnazione di un concetto.