All’indomani del 14 Luglio sono qui a scrivere.
Nonostante questa data non sia parte della nostra storia nazionale, si tratta sempre di una formidabile occasione per riflettere su una parola, che per me ha un significato profondo e meraviglioso almeno quanto la parola libertà.
Rivoluzione.
Dalla radice latina che vuol dire voltare di nuovo, e che sta a indicare il rovesciamento di un dato ordine, ma si riferisce anche al movimento di un corpo celeste attorno ad un altro. Eventi ciclici e ineluttabili, inevitabili poiché i pianeti, così come le stagioni dell’umanità, hanno visto nei secoli il succedersi di fasi e di trasformazioni, per poi tornare sempre al punto di partenza e ricominciare da capo, alla luce delle esperienze vissute e delle competenze acquisite. cambiano i contesti, i colori, i nomi delle persone coinvolte e gli strumenti utilizzati, ma l’energia è sempre quella, il ciclo continua a perpetrarsi dacché esiste l’universo in cui abitiamo. Esattamente come fa l’aratro che rivolta la terra, la rivoluzione stravolge lo status quo, e attraverso questo repentino cambiamento, che ha una componente distruttiva importante, crea le condizioni affinché un nuovo inizio possa avvenire, su un terreno abbastanza fertile da accogliere la vita.
Certo la Rivoluzione di cui stiamo parlando ha richiesto un prezzo di sangue altissimo, ma è molto facile per noi criticare la violenza emersa in quella occasione, osservando quegli accadimenti dalla bambagia delle nostre vite agiate, nelle quali ci basta andare al supermercato per decidere se abbiamo voglia di pane o di brioche. La rivoluzione si incarna nel sangue, nelle viscere e nelle ossa, è l’energia della repressione fisica, sociale e culturale subite, ad esplodere catartica nella forza del branco, che diventa cannibale. È un fatto di sopravvivenza, ha a che fare con il diritto alla vita, inalienabile, che ognuno di noi ha per nascita e di cui nessuno dovrebbe mai privarci.
Ma la violenza fisica non è l’unica strada per attuare una rivoluzione.
Leggo proprio ieri un articolo su Il Manifesto, una delle poche testate che ogni tanto si degnano di dare spazio alla voce dell’arte, dedicato alla mia musa ispiratrice Maguy Marin, una donna straordinaria prima ancora che un’artista, la cui opera possiamo già considerare immortale ed eterna. In questi giorni a Parma è stato proiettato un film dedicato a lei, il cui titolo è “L’Urgence d’Agir”, che racconta il suo lavoro nella costruzione del suo spettacolo-manifesto “May-B”, che è andato in scena in questa occasione, dopo 38 anni di repliche in cui questo lavoro sembra proprio non avere alcuna voglia di invecchiare. Maguy Marin incarna alla perfezione la mia visione dell’arte e del ruolo dell’artista nel mondo, e infatti è lei stessa a dirlo in questa intervista, in cui ribadisce: “l’arte è una azione politica”, e poi continua “Non siamo mai abbastanza attivi sulla questione politica. Guardiamo la sinistra che ha capitolato e facciamo troppo poco. È un mondo che va a due velocità, una per chi ha soldi, una per chi vive per le strade, noi artisti dobbiamo spronare i giovani a battersi per ciò in cui credono, a non essere sottomessi al capitalismo, ai desideri impliciti nel consumismo”.
Ecco in poche righe riassunto il senso stesso dell’implicazione politica nei mestieri d’arte, con quella proprietà di sintesi e quella lungimiranza di cui solo le grandi menti illuminate dispongono.
Oggi spesso questo aspetto non viene preso neanche in considerazione, molti giovani si avvicinano al mondo della danza desiderosi di arrivare sul palcoscenico, senza domandarsi davvero da dove arriva questa Urgence d’Agir. Noi adulti, e soprattutto chi si trova a coprire il ruolo di formatore nell’ambito dell’arte del movimento, dovremmo aiutare i giovani che desiderano intraprendere questo cammino di vita, a comprendere l’enorme responsabilità che questo comporta. Il lavoro di Maguy Marin riguarda proprio questo: la condizione umana, la lotta per la sopravvivenza, la finitezza dell’esistenza, con la consapevolezza che nel momento stesso in cui veniamo al mondo, siamo immersi in un contesto familiare, sociale, culturale e politico, con cui siamo obbligati a fare i conti per poter trovare il nostro posto nel mondo.
Come possiamo attuare una Rivoluzione non violenta?
Senza baionette, senza ghigliottine, senza armi di distruzione di massa?
Esiste uno strumento così potente, che spesso i potenti cercano di zittire, di mettere a tacere, poiché temono la forza travolgente della sua energia. Uno strumento che, se finora non è stato in grado di salvare il mondo, ha certamente salvato la nostra specie più volte nel corso della storia, e che non è altro che l’espressione più pura e vitale della nostra capacità straordinaria di accedere ad un immaginario magico e visionario, di astrarre e produrre mondi altri, connessi con il quotidiano ma trasfigurati dalla Bellezza (concetto anche questo dal multiforme significato).
Mi piace l’idea che la radice etimologica della parola Arte risalga addirittura dalla radice Ariana Ar (Gli Arii sono una popolazione che popolava anticamente la valle dell’indo), che in sanscrito indica l’azione di andare, muoversi verso, quindi contiene già in sé l’idea del movimento, di un viaggio che si può compiere in armonia solo se totalmente immersi nel grande fiume dell’evoluzione della nostra specie.
Non lasciamoci fregare, e soprattutto non facciamo in modo che freghino il futuro delle nuove generazioni. Chiediamo, pretendiamo che musica, danza, pittura, letteratura, siano inserite in ogni progetto scolastico dell’età dell’obbligo, che i giovani facciano esperienza di questo patrimonio non attraverso la televisione, ma andando a teatro per essere testimoni della magia che siamo in grado di creare. Muoviamoci affinché la luce dell’Arte, questa sciamana guaritrice, canalizzata fin dalla notte dei tempi attraverso i corpi dei Maestri, l’essenza spirituale delle Muse e degli Angeli, i demoni come il Duende, non si possa mai spegnere, perché se quella fiamma dovesse estinguersi anche la nostra speranza lo farebbe con lei.