Lia Courrier: “Bisogna assistere alla danza con il cuore e la mente aperti, senza preconcetti e aspettative, solo così se ne può godere in modo autentico”

di Lia Courrier
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Dopo gli ultimi articoli pubblicati ho ricevuto diversi messaggi privati, oltre ai preziosi commenti pubblici che affollano spesso la condivisione sulla mia bacheca personale. Le vostre parole giungono a me come farfalle, ognuna con i propri colori e forme: una moltitudine di battiti di ali che solo a guardarla mette già in un piacevole stato d’animo d’indole conviviale.

Una di queste farfalle mi ha colpito particolarmente nel ribadire ancora una volta quanto il linguaggio scritto e parlato sia uno strumento imperfetto per trasmettere idee e concetti con la dovuta pienezza, specialmente quando non si è in grado di scegliere le parole giuste e nel giusto assortimento. In questo caso il rischio è quello di permettere una comprensione solo parziale o imprecisa di ciò che (con chiarezza, invece) è contenuto nella mente e nel cuore. Il numero di oggi serve a me prima di tutto per argomentare meglio la mia posizione su un aspetto particolare.

La farfalla-lettrice, nonché giovane danzatrice, mi propone una profonda riflessione su una frase che ho scritto nell’articolo di due settimane fa in cui parlo della danza come di un’arte non verbale.

Nella sua esperienza non se la sente di definire così la danza, specialmente se si considera l’evoluzione compiuta negli ultimi anni. Mi ricorda che la danza ha ormai sconfinato i suoi limiti e qualsiasi barriera tra danza e performance si sta trasformando in una membrana sempre più sottile e permeabile, fino a diventare impercettibile o addirittura una forma-concetto fine a sé stessa, più utile agli addetti ai lavori che non a chi dello spettacolo ne è fruitore. Chiarisce poi cosa sia per lei la danza: un’espressione che ha origine nell’esperienza del corpo ma che poi può utilizzare diversi medium per incarnarsi, tra cui anche la parola.

Proprio nello stesso giorno in cui ricevo questo bellissimo scritto, nella bacheca di uno dei miei contatti “danzerecci” leggo una dichiarazione diametralmente opposta in cui si reclama la necessità di farla eccome questa distinzione, che la performance avviene utilizzando ovviamente il corpo come strumento ma che non basta muoverlo per fare di quell’azione una danza.

La mia idea a riguardo è che la natura originaria della danza di linguaggio non verbale, come anche la musica o l’arte figurativa, sia qualcosa che ha un grandissimo valore proprio perché siamo al cospetto di una comunicazione libera di volare al di là dei limiti della parola, che non è universale ma dipende dalla cultura di appartenenza.

Sono da sempre appassionata di Giappone, amo profondamente l’arte del Sol Levante e ho sempre contemplato ammirata la bellezza delle stampe giapponesi, delle meravigliose stoffe dei kimono, dei preziosi oggetti laccati e di altre altre innumerevoli delizie che questo paese ha donato al mondo, come l’incredibile maestria degli artigiani, che qui ricevono molta attenzione e onorificenze come portatori di antichi saperi da proteggere. Per fruire della letteratura, dei manga o della cinematografia, però, ho bisogno del supporto di una traduzione (almeno fino a che non mi deciderò a iscrivermi ad un corso di giapponese). Ho anche assistito ad una rappresentazione di Kabuki a Tokyo rimanendo ammaliata dall’essenzialità delle scene, l’incredibile qualità di movimento degli attori, la purezza della musica. È stato meraviglioso ed emozionante ma non ho potuto capire nulla della storia se non quel poco che i gesti e il tono della voce lasciavano intuire.

Se vogliamo andare a guardare ancora più in profondità, tuttavia, bisogna ammettere che anche la parola è ritmo, suono, dinamica, esattamente come il movimento danzato e quindi certo, ci sta anche che il corpo danzante produca suoni, del resto lo ha sempre fatto: scivolamenti, picchiettii, cadute, atterraggi, per non dimenticare il suono del respiro, partitura che spesso non è udibile se c’è musica in sala ma basta un attimo di silenzio per sentirlo emergere come una marea potente.

Ho assistito a tantissimi spettacoli di danza in cui i danzatori utilizzano anche la voce per recitare un testo. A volte in italiano, altre con la traduzione ma anche senza. Non è sempre così importante comprendere  il significato delle parole perché a volte il contesto stesso in cui queste si librano nello spazio racconta già abbastanza. Bisogna assistere alla danza con il cuore e la mente aperti, senza preconcetti e aspettative, solo così se ne può godere in modo autentico. Personalmente non sono affezionata all’idea della danza come arte muta, so bene che la questione non è così semplice, tuttavia per le argomentazioni sopra affrontate considero questa sua qualità una ricca possibilità per la comunicazione.

Certo, e qui giungo all’altro contenuto trovato sulla bacheca di un mio contatto: qualsiasi cosa si faccia sulla scena dovrebbe essere prodotta da un corpo debitamente preparato allo scopo. Così come non basta agitare il corpo per poter considerare quei movimenti una danza, allo stesso modo non basta parlare per fare di quella vocalizzazione un’azione scenica di senso compiuto che abbia la potenza necessaria per avere vita autonoma. Non credo sia proficuo separare danza, performance, canto, recitazione in stanze a tenuta stagna. L’espressione artistica sta andando verso un’idea totalizzante in cui le tecniche divengono strumenti per assolvere un compito, ossia esprimere un’idea attraverso una comunicazione efficace che possa essere accolta da tutti. Certo questa modalità richiede di acquisire molti saperi e abilità, di padroneggiare più medium differenti con uguale maestria, insomma: se è il performer che vuoi fare devi studiare e praticare più di tutti.

Esiste forse un fraintendimento su questo punto, perché molte volte davanti alle mie perplessità sull’esecuzione di qualcuno, mi è stato detto: “eh ma è un performer non un danzatore” come a dire che in quel caso si è giustificati a non avere padronanza dello strumento. La tendenza comune è quella di percepire la performance come un ambito in cui “vale tutto”, un palcoscenico su cui chiunque può dire la propria anche senza adeguata preparazione ma nella realtà penso che, qualsiasi sia l’assortimento delle abilità contenute nel tuo essere scenico, queste debbano essere consapevolmente acquisite con allenamento costante e restituite in modo coerente al racconto. Da qui non si scappa.

In chiusura di questa dissertazione, barocca e ridondante come è nel mio stile, invoco per l’ennesima volta la presenza di Pina, richiedo il suo aiuto affinché con sua chiara visione e con le parole puntuali e penetranti che solo lei sapeva trovare ci illumini tutti. Cito una frase celebre di cui spesso viene riportato solo un pezzo, tagliando via la parte secondo me più interessante perché portatrice di significati esoterici:

Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che cosa fare. A questo punto comincia la danza, e per motivi del tutto diversi dalla vanità. Non per dimostrare che i danzatori sanno fare qualcosa che uno spettatore non sa fare. Si deve trovare un linguaggio – con parole, con immagini, atmosfere – che faccia intuire qualcosa che esiste in noi da sempre”

Foto: Huang Wenya, “aftersound”, una performance del 2017 | REUTERS

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