Progettare un futuro professionale con la danza vuol dire cominciare da giovani, non necessariamente da piccolissimi ma di certo quella del danzatore non è una carriera che si può intraprendere da adulti. Poiché l’apprendimento di quest’arte passa da una lunga e dura formazione che spesso mostra angoli, spigoli, superfici abrasive e sostanze corrosive, mi capita di incontrare giovani allievi che mostrano già addosso i segni delle loro esperienze.
La prima condizione per poter insegnare ed essere delle guide competenti e rispettose è quella di lavorare su sé stessi, conoscere i propri demoni, le ferite e i traumi, compiendo un processo indispensabile per poter vedere e affrontare quelli degli altri.
Possiamo avere lesioni nel corpo fisico, infortuni anche importanti che possono rappresentare uno spartiacque nella carriera di un danzatore o di un insegnante, ma esistono anche lesioni giacenti nei campi sottili, nel corpo psichico, emozionale di una persona. Ebbene questi ultimi sono quelli più difficili da vedere, anche perché spesso vengono affrontati con la stessa famosa strategia di pulizia della casa che prevede di spingere la polvere sotto al tappeto.
Nel momento in cui si decide consapevolmente di ricoprire un ruolo di guida, diventa a mio parere un passaggio obbligato quello di rendersi canali puri e neutrali di trasmissione, il più possibile lontani dal giudizio e dal gettare sugli allievi nostre proiezioni. Purtroppo la tendenza a giudicare gli altri dipende anche da quanto il nostro sé giudicante è presente in noi, da quanta autostima abbiamo e da quanto sicuri ci sentiamo del multistratificato bagaglio di competenze, conoscenze e abilità che siamo qui chiamati a condividere con gli allievi.
Con questo non voglio dire che bisogna gonfiare a dismisura il proprio piccolo ego, ma tutto l’opposto, ovvero essere autenticamente consapevoli del proprio paesaggio interiore, in cui tutti noi abbiamo zone di luce e zone d’ombra. Se vogliamo che i nostri studenti riescano a guardarsi dentro, è necessario che noi lo facciamo per primi.
Mi sono sempre sentita molto lontana dall’immagine dell’insegnante che non mostra mai vulnerabilità o indecisione, che ha sempre tutte le risposte per ogni domanda, che si esprime per dogmi e certezze, che ha ragione per definizione, che siede al posto di comando e gli altri eseguono. Nella mia esperienza ho trovato molto più utile il cammino che da anni percorro attraverso pratiche somatiche, yoga, meditazione e lettura di testi, che non tutte le competenze tecniche riguardanti la danza che ho imparato in tutti questi anni di pratica assidua. Con questo non voglio ovviamente dire che non sia necessaria la preparazione tecnica, quanto piuttosto che questa sia un requisito imprescindibile e quindi, diciamo, da dare per scontato.
Lavorare sui propri traumi, invece, non è un processo così comune, andare in profondità dentro a questi buchi neri e lì incontrare il raggio di luce che possa estinguere ogni oscurità, è una scelta che una cultura fortemente materialistica come la nostra non considera importante oppure ne ha timore perché si entra nel territorio dell’invisibile, dell’impalpabile, di tutto ciò che “se non posso toccare non posso controllare”. Si tratta di percorsi che scuotono l’intero campo di cui siamo fatti, eventi fortemente trasformativi, non è una passeggiata e non esiste un metodo che possa essere considerato valido per tutti, ognuno ha bisogno di trovare il proprio con pazienza e fiducia. Una volta riemersi da questo inabissamento, però, tutto cambia: si è più lucidi, presenti, stabili, capaci di vedere davvero la persona che abbiamo davanti e non l’idea che potremmo esserci fatti di lei.
Se già nella vita credo che questo percorso di maturazione e realizzazione sia importante, nell’insegnamento della danza lo considero fondamentale, perché nel momento in cui siamo capaci di vedere e affrontare i nostri propri demoni allora saremo in grado di vedere e accogliere quelli degli allievi.
Incontro molti giovani con ferite profonde già presenti nella loro pur breve esistenza, me ne accorgo da tanti piccoli segnali che vengono inviati, spesso inconsapevolmente, ma che un occhio attento sa cogliere. La postura è uno dei questi, la luce nello sguardo, se guardano negli occhi o sfuggono, la coordinazione del corpo parla chiaro perché ad una frammentazione psichica ne corrisponde anche una nel movimento, nei casi più gravi si presenta una dissociazione dal corpo con difficoltà a percepirlo, assenza di senso cinestetico, nonostante l’assenza di patologie nel fisico. Lo intuisco anche da come reagiscono quando vado loro accanto per aiutarli, se diventano nervosi, se hanno ansia da prestazione che gli annebbia la mente se mi prendo un istante per dare loro le correzioni. Come si guardano allo specchio, se lo fanno, come guardano gli altri, quanta capacità di concentrazione hanno, la qualità del loro respiro, la sua ampiezza, il ritmo e dove si manifesta maggiormente, quanto sorridono, quanto piangono, come e quando queste manifestazioni emotive avvengono.
Mentre conduco la lezione provo a dare attenzione a tutti questi dettagli. A volte ci sono e non li noto, ma quando me ne accorgo so che è perché quella persona vuole proprio dirmi qualcosa.
A quel punto cerco di ascoltare, faccio spazio e attendo che il racconto si dispieghi spontaneamente nei tempi e nelle modalità spontanee, se è questo il desiderio (cosciente o no) della persona. In caso contrario non posso far altro che fare attenzione alle mie parole e ai gesti, facendo il possibile per coinvolgere e sostenere tutto l’apprendimento possibile in quel momento.
Normalmente le informazioni, le percezioni che ho alla presenza degli allievi raramente si rivelano errate, grazie all’incessante lavoro su me stessa ho sviluppato quella qualità di ascolto che mi rende sensibile al campo delle altre persone, alle dissonanze e ai disequilibri in esso presenti.
So di non essere l’insegnante di balletto con il diploma di qualche blasonata accademia appeso in aula, probabilmente anche perché in fondo non ritengo questa una cosa per me importante. Quello che so è che questo tipo di approccio al lavoro mi ha aiutato lentamente nel tempo a trovare un modo per essere richiedente, severa e autorevole con gli allievi, estinguendo però l’umiliazione, la violenza psicologica e l’abuso di potere dalla mia modalità. Mi ha consentito di essere una guida che non dà istruzioni e basta ma che si assume la responsabilità di essere un esempio con il proprio atteggiamento, la propria etica, la dedizione, l’onestà e la vocazione nei confronti della pratica.
E voi? Conoscete i vostri demoni e le vostre ferite?
Avete mai fatto l’esperienza di immergervi nelle profondità di voi stessi?
Sono sicura di sì.