Esiste un precetto giapponese che dice di lasciare un luogo meglio di come lo si è trovato. Non si tratta di un proposito buttato lì e lasciato cadere nel vuoto ma di una pratica sociale che è evidente per chiunque abbia visitato il Paese del Sol Levante (chi mi conosce sa quanto io adori quell’arcipelago e quanto brami di rimetterci piede, non appena sarà possibile), lo si evince facilmente anche solo usando le toilette, persino nel luogo più sperduto o affollato, per quanto spartane siano, saranno sempre pulitissime. Lo stesso vale per qualsiasi luogo pubblico, che si condivide con la collettività: non si gettano le cartacce per terra, nemmeno mozziconi di sigaretta, nessuna tag sui muri fatta con la bomboletta spray, nessuna tappezzeria dei mezzi pubblici imbrattata o tagliata. A me piace tanto questo modo di pensare ed è quello che cerco di fare ogni giorno ovunque vada, non solo dal punto di vista fisico ma anche energetico. Quando sono di cattivo umore o sono stanca, so che posso ricorrere alle mie risorse per riconquistare il sorriso, se devo andare a lavorare e vedere i miei allievi di danza o i miei praticanti di yoga, cercando di creare un ambiente gioioso in cui anche le loro tristezze e preoccupazioni possano dissolversi in un campo di positività.
Ho notato che questa pratica fa bene a chiunque partecipi alla classe, ma principalmente fa bene a me, perché mi permette di orientarmi verso un atteggiamento propositivo, che rende il duro lavoro quotidiano molto più leggero e gradevole da svolgere insieme.
In un’epoca lontana in cui tutto questo era in me solo in forma di seme, nella totale inconsapevolezza, credo di aver scelto di rimanere in Italia con questo spirito, quando tutti attorno a me stavano andando via. La mia generazione di danzatori credo sia stata quella del grande primo esodo. A partire dagli anni ’90, in un momento in cui c’era tanto lavoro per tutti, in questo paese è cominciata una progressiva diminuzione delle risorse destinate alla danza, e di conseguenza anche l’interesse nei confronti di quest’arte (da parte di pubblico e programmatori) ha cominciato a scemare, fino ad arrivare al contesto di oggi, in cui ormai il sistema danza (quello ministeriale) è talmente corrotto, stagnante, farraginoso e obsoleto da rendere inutile ogni tentativo di sistemare le cose. Bisognerebbe tirare una riga, gettare le giuste premesse e ricostruire tutto da capo.
Ho scelto di rimanere in Italia (le occasioni per partire ci sono anche state) perché pensavo che se ce ne fossimo andati tutti la meravigliosa identità artistica e culturale italiana, di cui allora eravamo ancora consapevoli, si sarebbe dispersa, avrebbe perso il suo senso di appartenenza, e sarebbe stato un peccato perché – pensavo allora – c’erano già i musei di tutto il mondo a esporre le opere dei nostri più grandi artisti a portare lustro e meraviglia.
Qualche anno più tardi, quando ancora stavo al palo a barcamenarmi tra audizioni per piccole produzioni pagate poco e senza contratto o spettacoli che continuavano a saltare, i miei colleghi espatriati mi raccontavano quanto difficile fosse imporsi nel mercato estero dello spettacolo dal vivo, ma io nella mia testa pensavo fosse persino più difficile restare in un luogo in cui non si è neanche riconosciuti come professionisti e in cui non si riesce a costruire nessuna carriera degna di nota. Da allora le cose sono andate sempre peggio, ho rinunciato al palcoscenico e mi sono dedicata all’insegnamento, e oggi mi ritrovo ad insegnare balletto in un solo Centro di Alta Formazione a Milano, sebbene abbia alle spalle 20 anni di esperienza. All’estero una persona come me avrebbe oggi tutt’altro ruolo e anche una paga migliore (negli ultimi anni in media una lezione di danza viene pagata quasi 10 euro in meno del 2001), mentre qui nonostante le competenze acquisite mi sembra di essere pressoché trasparente. Non che mi senta un’insegnante eccellente, se pensassi una cosa del genere non ci sarebbe più interesse a continuare, perché mancherebbe la visione verso un ulteriore approfondimento. Però certo 20 anni di esperienza formativa in ambito professionale hanno fatto di me una detentrice di strumenti e saperi, ed è un peccato che non abbia avuto modo di incontrare più realtà con cui collaborare (quella unica struttura con cui collaboro è un luogo prezioso in cui davvero sento di essere nel posto giusto, quindi non mi sto affatto lamentando, il mio intento è mostrare la realtà di una intera vita votata alla danza, che non ha certamente avuto un raccolto fortunato).
Ai miei allievi, che ogni giorno si impegnano con tutto il proprio essere nello studio, con il corpo, la mente, la propria energia e anche le proprie risorse economiche (perché in questo paese se vuoi studiare danza devi essere benestante altrimenti te lo scordi, dal momento che tutta la formazione professionale è privata), chiedo scusa: non sono riuscita a lasciare questo luogo meglio di come l’ho trovato. Non sono riuscita a porre le basi affinché le nuove generazioni avessero un riconoscimento, delle paghe e dei diritti come tutti gli altri lavoratori. Non sono riuscita a far sì che i danzatori avessero un ruolo definito nella società, che il loro apporto fosse percepito dalla collettività come prezioso e arricchente. Non sono riuscita a contrastare la deriva culturale di questo paese dove la cultura popolare è affollata da reality, falsa informazione, trasmissioni vuote che fomentano gli istinti più bassi mai conosciuti dall’umanità.
Non ce l’abbiamo fatta, l’ignoranza ha avuto il sopravvento, e dopo tanti anni a lottare in prima fila per far sì che questo non accadesse, mi rendo conto che probabilmente non esiste la benché minima speranza che le cose possano cambiare: molti (ex) colleghi hanno deciso di cambiare lavoro, per ovvie ragioni che non hanno a che fare solo con l’economia domestica, ma anche con l’etica professionale; quelli che ancora calcano le scene si sono dovuti trasformare in burocrati e abili compilatori di bandi per accedere alle risorse, togliendo energia a ciò che è veramente importante, oppure rimangono ad alimentare quella palude di sistema, nel tentativo di grattare il fondo della pentola finché ce n’è.
Onestamente, cari allievi, a voi dico: andatevene. Non stateci a pensare neanche un istante, fate le valigie e andatevene. Non dico che sia facile, e neanche che fuori dal confine vi aspetteranno srotolando il tappeto rosso, perché all’estero i danzatori sono molto preparati e competitivi, hanno abilità che il più delle volte qui ci sogniamo e non è questione di talento, ma di didattica, di metodo, della danza che si evolve e di conseguenza porta anche i processi di trasmissione a fare lo stesso. Però credo che se davvero volete fare del vostro impegno investito finora una professione, non è qui che avrete la possibilità di realizzare questo proposito, quindi senza timori proiettate i vostri progetti altrove.