Lia Courrier: “Caro Rudy, ti scrivo…”

Quanto sarebbe bello se la mirabile tecnica raggiunta dai ballerini di oggi venisse messa al servizio di un lavoro più profondo...

di Lia Courrier
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Nell’anniversario della morte di Rudolf Nureyev la mia bacheca di Facebook si è riempita di sue foto, di citazioni e di belle frasi a lui dedicate da molti amici e colleghi. È stato bello leggere una tale effusione d’amore per celebrare la discesa sulla terra, tanto potente quanto fugace, di questa fiamma ardente e maestosa che ha illuminato i palcoscenici del mondo e colmato i cuori di tanti spettatori appassionati.

Una tematica comune in molti commenti riguarda la deriva prettamente tecnicistica che il balletto sta prendendo negli ultimi anni, con una grande attenzione al gesto tecnico e alla perfezione dei corpi danzanti che assurge al primissimo piano in modo talmente totalizzante da oscurare molti altri importanti aspetti dell’arte del movimento.

Non si tratta di un sentimento nostalgico verso una danza che certamente appartiene più al mio tempo, alla mia epoca, a quelli che erano i miei miti di giovane danzatrice in formazione. Non si tratta neanche di una critica, perché la danza si spinge laddove sente di potersi sviluppare in modo più coerente, in qualità di perfetto specchio della società e del tempo in cui vive. Ciclicamente l’arte ha sempre oscillato verso le diverse polarità ai due estremi della bilancia, saturando una tendenza per poi spostarsi altrove, abbracciando la trasformazione come unica risposta possibile alle domande che si pone, questa non è certo una novità. Credo, però, che una riflessione su questo argomento si possa fare, nel rispetto di tutti i professionisti che oggi sono impegnati nelle compagnie di balletto più famose e che ogni giorno, ad ogni interpretazione, portano il proprio contributo alla storia che tutti noi siamo qui chiamati a scrivere con il gesto e con il corpo.

Ciò che di Nureyev abbiamo celebrato è il fatto che, sebbene possedesse una tecnica sopraffina che molte volte, in confronto agli altri danzatori in scena con lui, lo faceva sembrare un uomo venuto dal futuro per precisione e prestazione atletica, egli fosse custode anche di carisma, presenza, magnetismo in abbondanza, nonché una genuina capacità di interpretare il personaggio come un attore consumato (esperienza che fece davvero, al cinema, diverse volte). So di parlare di un fuoriclasse, di quella tipologia di artista che nasce poche volte nella storia, ma non era neanche l’unico di quella generazione e di altre a venire, illuminate da queste stelle rare e particolarmente brillanti che hanno donato al mondo immortali interpretazioni.

Non che oggi manchino bravissimi ballerini, ce ne sono tanti e molti emanano quella vibrazione magica che fa rimanere immobili al loro cospetto danzante, per paura di incrinare l’incanto, ma si percepisce nei più una spinta estrema verso la prestazione tecnico/atletica e meno attenzione all’interpretazione, a sviluppare quella autenticità profonda del personaggio, attingendo a quel sentito che dovrebbe emergere dal proprio mondo interiore.

Quando sfoglio i vari profili Instagram di ballerini, spesso vedo pirouette incredibili, salti rotanti, equilibri da togliere il fiato, estensioni da circensi, minuti e minuti di primi piani di piedi eccezionali sulle punte, ripresi con il semplice scopo di mostrare la seducente mobilità di quel collo del piede. Quando trovo chi pubblica un tutorial per eseguire correttamente un battement tendu o un plié (ne seguo diversi) mi commuovo quasi nel vedere che esiste ancora qualcuno che considera questi contenuti qualcosa di importante da condividere. L’abitudine a guardare solo al virtuosismo, a fare scorpacciata di esercizi tecnici, oppure il feticismo nell’eccesso anatomico di anche, schiene, gambe e piedi che esondano dallo schermo, toglie importanza a tutto ciò che poi starà attorno a quegli elementi, ossia la danza, quella che dovrebbe essere considerata la danza, almeno. Non solo: questa abitudine farà sì che ci si aspetti esattamente questo quando si va a guardare un balletto e l’effetto di questa influenza si vede chiaramente nelle esecuzioni in cui i ballerini girano e girano oppure restano in equilibrio per diversi secondi mentre la musica va avanti e non c’è traccia di danza da nessuna parte. Certo è mirabile quello che si fa oggi col corpo e come i ballerini, generazione dopo generazione, abbiano formulato delle pratiche di allenamento funzionale che consentono loro di portarsi verso queste eccellenze, ma non dobbiamo dimenticarci che la danza non è questo.

Una mia amica, grande intenditrice e buongustaia, per il 6 gennaio, data in cui Rudy ha lasciato il suo splendido e martoriato corpo per partire verso altre vite, ha condiviso il suo indimenticabile ingresso in scena come Albrecht nell’atto bianco di Giselle.
Non c’è una sola pirouette o salto: Rudy cammina, corre, si muove sul palco, totalmente solo (fatta eccezione per la musica, unica e struggente partner in questa scena) avvolto in un enorme mantello, pesante e scuro come i pensieri del suo personaggio, da cui sporgono quelle gambe così decise ed eleganti. Tutta la danza possibile è in quei minuti consumati egregiamente un attimo prima che Giselle faccia la sua prima apparizione come spirito. Noi siamo lì con lui, piangiamo con lui, ci addoloriamo con lui, ci sorprendiamo, abbiamo paura con lui mentre cerca di capire cosa gli ha sfiorato la spalla. Ogni emozione Albrtecht possa provare affiora nelle sue espressioni, nei suoi gesti, nei suoi occhi, il viso non ha nulla di esagerato, nulla di falso, il suo intero essere vibra con la giusta frequenza in ogni istante: né più né meno di ciò che serve per portarci nella storia, in quel preciso momento. L’individuo Rudy quasi sparisce permettendo al personaggio di manifestarsi attraverso il suo splendido corpo.

Mentre guardavo questo video, che ho poi condiviso con i miei allievi, pensavo tra me che se qualcuno avesse chiesto a Rudy quale fosse stata la parte più difficile del balletto, lui avrebbe potuto rispondere che era proprio quella: mantenere quella tensione scenica drammatica senza mai spezzare l’incanto.

Quanto sarebbe bello se la mirabile tecnica raggiunta dai ballerini di oggi venisse messa al servizio di un lavoro più profondo su questi meravigliosi personaggi del repertorio, così complessi da lasciare spazio agli interpreti affinché possano evidenziare una sfumatura piuttosto che un’altra. C’è enorme ricchezza nel balletto per crescere artisticamente come interpreti, riportando la tecnica al suo ruolo di strumento e non di fine.

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