Interessante discussione sollevata da una collega sui social: cosa facciamo davvero, in qualità di insegnanti di danza e danzatori, per prevenire gli infortuni e proteggere il nostro strumento?
La danza chiede ai danzatori prestazioni atletiche sempre più estreme, spinge i corpi al limite, eppure poco o niente mi sembra cambiato dal punto di vista dell’argomento in questione, a parte quelle situazioni particolari, come nel caso delle grandi compagnie, in cui i danzatori sono seguiti da staff di professionisti che costantemente monitorano ogni piccolo problema e agiscono di conseguenza. Un lusso che pochi possono permettersi.
Per tutti gli altri si tratta di una storia di resistenza. A cosa? Al dolore.
In qualità di insegnante metto la sicurezza prima di ogni altra cosa, dal momento che insegno balletto a dei corpi che non sono stati selezionati per ricevere quel tipo di sollecitazioni. Negli anni in cui ho approfondito la conoscenza del corpo umano, ho acquisito sempre più strumenti per aiutarli a eseguire le posizioni senza creare conflitti a carico del sistema scheletro-muscolare, condivido con loro anche informazioni su quali cibi, erbe, spezie e prodotti naturali possono prevenire condizioni infiammatorie e – attraverso l’insegnamento dello yoga – quotidianamente trasmetto loro strumenti per affrontare l’indagine verso il Sé, promuovere la consapevolezza, ma anche aumentare forza, flessibilità e conoscenza di questo strumento che è il loro tempio.
Trasmetto loro il rispetto per questo luogo in cui la danza nasce e si genera.
Li aiuto anche a descrivere i dolori che hanno, a distinguerne qualità e forma, a saper localizzare esattamente dove si trova il punto massimo di intensità e se, ad esempio, si irradia, o si sposta, se è un dolore sordo e continuo, se passa quando ci si scalda, se somiglia più ad una scossa elettrica….si tratta di un esercizio per migliorare la propriocezione, l’ascolto, l’abilità a comprendere i messaggi del corpo, prima che questo debba urlare per farsi sentire.
La verità, purtroppo, è che il concetto stesso di prevenzione è pressoché sconosciuto in una società come la nostra: siamo consumatori che usano i prodotti finché non si rompono, per poi gettarli via e acquistarne di nuovi. Nell’ambito della promozione della salute, la prevenzione non è contemplata: si va dal dottore quando si sta male, non ci si cura mai quando si sta bene per evitare di andarci, e comunque si delega molto, raramente ci si assume la responsabilità per la propria salute. Si tratta di una questione culturale. Aggiungi che in gioventù si ha la sensazione di essere invincibili e invulnerabili e il gioco è fatto: tutti questi strumenti che ho diligentemente trasmesso loro (e continuerò a farlo, nonostante tutto), saranno utilizzati, forse, tra una decina di anni, quando il loro corpo ne richiederà la presenza.
La lezione, quindi, sembra un catalogo del dott. Gibaud, per chi si ricorda questo marchio: tutori, taping, fasce, scaldamuscoli, e quelle mani che alla fine degli esercizi vanno a toccare inguini, ginocchia, spalle, schiene, con una espressione di sofferenza stampata in faccia.
“ti vuoi fermare?” – “no, maestra”
E figurati, perché mai dovresti fermarti quando puoi tranquillamente stramazzare sul pavimento di una sala danza? Schiattarci? Lasciarci un femore? Perché mai andare da un osteopata, da un massoterapista, da un fisioterapista, quando puoi benissimo continuare a lavorare sul dolore finché non dovrai fermarti per forza, e a lungo? Perché non fidarsi fino in fondo dei nostri consigli, dato che abbiamo un’esperienza alle spalle che potrebbe essere loro utile?
Niente, preferiscono tenersi il tutore per mesi e “aspettare che passi”. Pessima strategia.
Ma del resto io posso dare loro tutto ciò che so, oltre la mera tecnica, ma infine la scelta è la loro, e quello è un territorio in cui io non sono autorizzata ad entrare, posso solo guardare.
Sono tante le componenti che entrano in gioco nel comporre lo schema-pensiero del danzatore: eroismo, masochismo, caparbietà, ostinazione, una certa ottusità, una “cazzimma” (scusate il dialetto, ma rende troppo bene) che però tirano fuori in ambiti in cui invece servirebbe un po’ di sensibilità e di amore verso questo corpo, non dimentichiamo una resistenza troppo alta al dolore e, infine, quella frase che ha rovinato l’esistenza a tutti: “the show must go on”.
Sì, vabbè, ma se prima dei 30 anni ti sei già giocato tutte le articolazioni perché non ti sei mai fermato a capire cosa stava succedendo, cosa ci hai guadagnato?
Niente: the show can’t go on. Sipario.