Lia Courrier: “Chi è il maestro di danza?”

di Lia Courrier
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Chi è il maestro di danza? Mi pongo questa domanda quasi ogni giorno. L’esperienza mi ha fatto capire che dare una buona lezione di balletto non è poi così difficile, se si ha un minimo bagaglio di studi e di palcoscenico sulle spalle. Essere un maestro, invece, è qualcosa di diverso, che coinvolge non solo la sfera fisica, le combinazioni da assegnare o la bravura nel mostrare i movimenti, ma riguarda aspetti più sottili, nonché un continuo approfondimento e la capacità di impegnare totalmente sé stessi, con rispetto e generosità, in ogni gesto, parola, azione, nel proprio ruolo di conduttore.

Quando percepisco che qualcuno mi ha scelta come guida, temporaneamente almeno, mi piace lasciargli qualche tempo per prendere confidenza con il mio punto di vista sulla danza, sebbene – in realtà – si tratti sempre di una necessaria osservazione reciproca. Ascolto la sua sfera energetica diretta verso di me, alla ricerca di uno sguardo, di una correzione, del semplice conforto dato dal sentire la mia presenza accanto o dalla conferma di un commento positivo, cosa che normalmente dispenso generosamente. Cerco di soddisfare questa continua richiesta silenziosa nel miglior modo possibile, compatibilmente con le condizioni del momento e con il numero di allievi presenti. È una fase decisiva, quella iniziale, durante la quale getto le basi per una solida relazione insegnante-allievo, fondamentale per evolversi insieme.

Eh già: insieme, perché ogni danzatore che incontro nelle mie classi è lì per insegnarmi qualcosa, ed è questo che crea davvero la possibilità per entrambi di evolversi insieme verso una conoscenza più profondare non solo della danza. Quando e se, in seguito, mi viene concesso, provo a passare ad un contatto più stretto, sia fisicamente che emotivamente, nel modo più accogliente e rispettoso possibile.

Molte persone alla fine della classe sentono l’esigenza di parlarmi, di raccontarsi, questo è il modo con cui mi fanno capire di voler accorciare le distanze verso una relazione più confidenziale, così cerco sempre di ascoltarli con attenzione sincera e di reagire di conseguenza. Altri invece finiscono la lezione, salutano e vanno via, a volte devo aspettare mesi solo per ricevere da loro un sorriso. Non lo fanno per essere scortesi, ovviamente, ma per delimitare uno spazio privato di cui hanno bisogno e che io cerco rispettosamente di non invadere, in attesa di nuove istruzioni.

È proprio attraverso questa trattativa che avverrà, o non avverrà, una connessione.

Da qui posso mostrare le strade percorribili, in quel dato momento, da quell’allievo, fornendogli tutti gli strumenti necessari per percorrerle con consapevolezza, per poi cercare un luogo da cui osservare, lasciando a lui l’onere di compiere l’azione, da solo sulle proprie gambe, quando si sentirà pronto a farlo. Con questo atteggiamento non intendo ritrarmi da un coinvolgimento personale nel processo di crescita, prendendone le distanze, ma penso che il dono più grande di un maestro sia proprio l’emancipazione dalla sua stessa presenza: tutto ciò che è stato trasmesso ora appartiene esclusivamente all’allievo, in modo totalmente indipendente.

Un atto di responsabilità, questo, di cui dovrà rispondere d’ora in avanti.

È un privilegio essere testimoni di questa fase di transizione verso la maturità di un danzatore, che prescinde dall’età anagrafica ed è dettata non solo dalla predisposizione fisica ma soprattutto dalla determinazione, dall’esigenza profonda di comunicare attraverso il movimento. Si tratta di un processo non lineare, fatto di alti e bassi, che richiede attenzione e pazienza prima di poter giungere ad un risultato soddisfacente e sensibile. Proprio per questo la sua realizzazione richiede un tempo che è diverso per ciascuno, necessario per negoziare con i propri limiti e le proprie paure. I concetti che formano questa doppia corrente ininterrotta di informazioni, raggiungeranno le profondità di entrambi per attuare un cambiamento irreversibile: una volta che l’informazione giusta per quella persona è giunta a destinazione, sia essa verbale, immaginativa o attraverso il tocco, quella consapevolezza resterà lì come una piantina che continuerà a crescere e svilupparsi in modo del tutto indipendente da me.

Infine accade: mentre osservo un danzatore eseguire un movimento, ancor prima di dargli una correzione, da solo si mette a posto. Il suo corpo sente un bisogno e lo soddisfa istintivamente.

Ecco. Quello è IL momento. Ciò che più amo del mio lavoro. Vederli sorridere per essere riusciti ad usare con intelligenza gli strumenti che abbiamo trovato insieme è un momento luminoso, che non ha niente a che vedere con la mia soddisfazione personale, di cui non bisognerebbe mai preoccuparsi troppo, ma riguarda la scintilla negli occhi di chi è riuscito a spostare il proprio limite un po’ più in là, senza neanche rendersi conto di averlo fatto, sentendo il proprio corpo rispondere ad una organizzazione armoniosa, con la stessa facilità con cui si sistema l’ultimo pezzo di un puzzle per ammirarne l’immagine, stupendosi di come non si fosse riusciti ad intuirla già da tempo. È qui che la danza canta a squarciagola, riempiendo gli spazi interni ed esterni al corpo, così forte che anche i passanti in strada potranno percepire che lì, in quel momento, qualcosa di meraviglioso è accaduto.

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