Nei giorni successivi alla trasmissione di Roberto Bolle, su rete nazionale, ho intrattenuto una accalorata discussione sotto a un post che avevo pubblicato, contenente un mio commento a caldo. Tralasciando il contenuto di quello scambio, che non considero poi così interessante, quello che mi ha colpito molto è la quantità di persone che hanno scelto di aprire il proprio contributo scrivendo di non essere ‘addetti ai lavori’, addirittura scusandosi per entrare in una discussione tra persone ai loro occhi esperte del settore.
Mi ha sempre sorpreso il timore reverenziale che alcune persone dimostrano quando si trovano, ad esempio, al cospetto di un’opera d’arte contemporanea, invase da un senso di inadeguatezza che può scatenare reazioni di vario tipo: c’è quello che prende le distanze fin dall’inizio “ah io di queste cose non ci capisco niente”, e chi piuttosto che dire che un’opera non piace si sbrodola in commenti tipo: “si, è particolare, un’opera concettuale, interessante…” e tutte quelle parole vuote e di circostanza che vengono usate per non dire che con i soldi spesi per il biglietto della mostra sarebbe stato meglio andarsi a fare uno spritz. Davanti alla produzione artistica alcune persone si sentono intimidite, pensano di non avere voce in capitolo, di non avere quella levatura intellettuale per meritarsi il diritto di parola, oppure si convincono che una cosa è bella e di valore solo perché le recensioni lo dicono, o perché piace a tutti.
Lo spettatore consapevole è ormai una vera rarità, penso andrebbe tutelato come esemplare in via di estinzione, perché resta sempre una presenza importantissima nella liturgia dell’arte, la sua coscienza profonda, poiché una qualsiasi opera artistica, senza nessuno che la contempli, è un morto che cammina destinato a soccombere nel caveau di un museo, in una sala prove, in un laboratorio, in un appunto su un taccuino o su un pentagramma. Ancora di più per lo spettacolo dal vivo, la presenza del testimone consapevole diviene indispensabile, e quanto più ha sviluppato un suo gusto critico, in virtù della sua esperienza di fruitore, tanto più chi lavora per la creazione dell’opera sarà stimolato a fare sempre meglio, per rispondere alle sue esigenze costantemente in evoluzione.
Ci sono molte storie del passato che raccontano di spettatori che hanno fischiato, urlato, gettato ortaggi sul palcoscenico quando lo spettacolo non era di loro gradimento. È anche vero che molte delle opere più fischiate alle premiére erano degli assoluti capolavori, così all’avanguardia che il pubblico non poteva comprenderle, come ad esempio la Sagra della Primavera di Nijinsky, che oggi invece viene celebrata come un masterpiece della coreografia. Tuttavia una simile vitalità nel pubblico odierno è totalmente scomparsa. Le persone pagano profumatamente per assistere a spettacoli, alla fine dei quali si applaude per tradizione più che per trasporto, si rimane sempre in quel bon ton che vira all’indifferenza, anche quando ciò che si è visto non è stato apprezzato. Spesso si sta in platea esattamente come ci si siede davanti alla televisione e questo mi ricorda il ritornello di una hit dei miei tempi, che recitava: “Video kill the radio stars”.
Dal nord Europa, per fortuna, mi giungono racconti di serate in cui ancora il pubblico insorge, si arrabbia o partecipa e si commuove, e questo accade perché in quella parte di mondo le sale sono sempre piene di un pubblico formato da non addetti ai lavori, sinceri e appassionati fruitori della danza e del teatro, che non vanno a vedere solo l’intrattenimento ma anche la ricerca. Senza camminare sul fragile terreno del gusto personale, si tratta comunque di un pubblico consapevole, in grado di leggere e interpretare un’opera, e che ci tiene a dire la sua. Questa immagine romantica mi affascina moltissimo perché smuovere emotivamente il pubblico è comunque un’impresa, qualunque sia il colore di queste emozioni, e credo sia molto importante e toccante anche per gli autori di quelle opere assistere alle reazioni provocate dal proprio lavoro. Quello che mi convince meno è quando alla fine di uno spettacolo le persone sono uguali a quando sono entrate in sala, allora vuol dire che sulla scena non c’è stata trascesa, non si è attivato un processo, non c’è stata connessione di anime o che l’autore non è riuscito a trovare un canale universale per uscire fuori.
Il parere del pubblico dei non addetti ai lavori è molto importante, poiché la visione che un danzatore ha di uno spettacolo è fortemente filtrata dall’esperienza diretta e quotidiana che ha di quel linguaggio, per questo non sarà mai in grado di essere testimone neutrale, così come un cineasta non riuscirà a guardare un film senza fare le sue valutazioni sulla fotografia, sul montaggio e sulle riprese; come dire anche che per un musicista non sarà facile lasciarsi andare ad una esecuzione senza soffermarsi anche sul dato prettamente tecnico. Lo spettatore che invece non fa parte di questo ambiente avrà la possibilità di ricevere quello che arriva dalla scena come se fosse inchiostro che si posa su un foglio bianco. In una adeguata condizione di concentrazione e apertura, riceverà tutto come un’unità olistica che non può essere suddivisa in parti, e qualora si verificassero imperfezioni nell’esecuzione, queste non verranno notate perché sarà coinvolto nell’assaporare l’opera come insieme. Non abbiate paura, quindi, di esprimere il vostro personale punto di vista, e per averne uno significativo vi basterà continuare a guardare quanta più danza riuscite.