Scrivo questa rubrica da un tempo considerevole ormai, parlando della mia esperienza con l’insegnamento della danza, accumulata in un ambito molto particolare: la formazione professionale. Un territorio impervio, quello delle realtà private, non riconosciute a livello istituzionale, ma che si propongono come percorsi superiori con l’obiettivo di formare lavoratori dello spettacolo. Siamo chiamati a compiere un cammino, più o meno lungo, con studenti che vivono sia l’aspetto più gradevole dello studio, ossia quello che riguarda il puro piacere del corpo in movimento, ma anche quel lato più ombroso e ostico della vita con la danza fatto di aspettative, fatica, incertezza, presenza del sé giudicante, insuccessi e tutte le altre questioni legate al piccolo e al grande Ego. Ho capito che non esistono ricette infallibili per interagire e contattare gli allievi, si tratta di un incontro che può avvenire oppure no, a prescindere da tutto, e quando accade non è detto che duri. Chi si cimenta nella pasticceria sa bene quanto gli equilibri, in questa forma di scienza alchemica, siano delicati: basta anche solo sbagliare un tempo di cottura e puoi buttare tutto nella pattumiera.
Nella mia attività di insegnante, fin dal primo incarico, ho sempre collaborato in percorsi professionali. Ho cominciato che avevo solo 25 anni e zero esperienza, se non come allieva e danzatrice, che per fortuna era già lunga e ricca, ed è stata la mia ancora a cui afferrarmi in quei primi, difficili anni di insegnamento. A quel tempo non c’era molta differenza d’età tra me e gli allievi, e se questo poteva creare qualche difficoltà in termini di autorevolezza e di ruoli, aveva come vantaggio quello di potermi relazionare con persone che erano cresciute su una base comune in termini di cultura, immaginario, riferimenti e metodi di educazione familiare. Con il passare degli anni sento un divario sempre più ampio tra me e loro, dovuto sicuramente alla differenza d’età che aumenta sempre di più, ma anche ai cambiamenti che la società compie, con una accelerazione progressiva, alla questione genitoriale, ma anche al senso diffuso di incertezza e paura per il futuro che caratterizza una generazione sulla quale gravano sempre di più le aspettative ma a cui infine non vengono sempre consegnati gli strumenti per raggiungere davvero quegli obiettivi. La conclusione di questa storia è che sento i ragazzi sempre più lontani, mi parlano di cose che non conosco, hanno una visione sul mondo che non sarei mai neanche riuscita ad immaginare. A volte mi sembrano alieni. Altre volte lasciano scorgere le loro vulnerabilità, e in quelle riesco a rispecchiarmi, trovando un punto di contatto, un accesso empatico, ma spesso i consigli che potrei dargli non troverebbero spazio per un’applicazione concreta, nella loro strategia di vita. Il mio sforzo quotidiano è quello di mantenermi, come un abile funambolo, in equilibrio sulla linea che divide l’accondiscendenza dalla severità, la leggerezza dalla serietà, la verbalizzazione dall’azione, evitando in ogni modo di sbilanciarmi da una parte o dall’altra per non cadere. La verità è che ogni tanto precipito giù dal filo, senza neanche capire bene come sia successo, e senza rete di salvataggio. In questi casi qualcosa irrimediabilmente si spezza ed è necessario uno sforzo non indifferente per cercare di recuperare la fiducia e la complicità, elementi in assenza dei quali la relazione insegnante-allievo non può dirsi completa, né soddisfacente.
Provengo da una famiglia con presenza di docenti e professori, per questo ho modo di confrontarmi costantemente con il mondo della formazione scolare, ed è molto evidente che ci troviamo in un momento in cui i metodi formativi che sono parte del patrimonio della vecchia generazione, vengono sofferti molto dalle nuove, per diversi motivi che sarebbe troppo lungo da spiegare qui, ma che chiunque abbia a che fare con adolescenti e giovani adulti può intuire. Chi ha la mia età probabilmente ha avuto insegnanti molto severi e richiedenti, che non davano una soddisfazione neanche a piangere, nonostante fossimo tutti lì ad anelare almeno ad un ‘meglio!’ che però non arrivava mai. In tanti anni di formazione mi avranno detto ‘bene’ forse tre volte, nonostante l’impegno e la dedizione. Si premiava il risultato, non l’impegno, perché in quel contesto era proprio ciò che contava poi sul lavoro o alle audizioni: non quanto ti impegni ma quanto sai fare. A causa del mio carattere ho sempre patito l’assenza di sostegno emotivo da parte dei docenti, e il loro pretendere sempre che non avessimo solo gambe ma anche un cuore d’acciaio, così quando sono diventata insegnante a mia volta, ho creduto nella morbidezza e nell’accoglienza, scelta che nella maggior parte dei casi si è rivelata utile, dal momento che l’allievo viene responsabilizzato nel suo ruolo e non riceve solo correzioni ma anche elogi, quando meritati. A volte può capitare che questo tipo di relazione, che si presuppone essere tra persone adulte, però, non venga compresa e che l’allievo non voglia assumersi il suo ruolo, scaricando ogni responsabilità sul docente: non sono riuscito a migliorare? Non ho raggiunto gli obiettivi e il successo? È colpa del docente che non mi capisce o non vede il mio talento. Spesso questo meccanismo è inconscio, ovviamente, in totale buona fede, ma comunque nel momento in cui si innesca ecco comparire un divario incolmabile, a causa del quale la collaborazione basata sulla fiducia reciproca viene a mancare e ogni apprendimento impossibile, motivato solo dall’astiosa volontà dell’allievo di dimostrare qualcosa, di riscattarsi. Una base davvero labile su cui costruire la propria individualità di artista.