Lia Courrier: “Credo di poter affermare che nell’arte tutta non esista una corrente che sia sopravvissuta tanto a lungo e in così buona salute come la danza classica”

di Lia Courrier
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Quando penso alla danza classica a volte rimango stupita dalla capacità che questo linguaggio ha avuto di cavalcare sull’onda del tempo senza venirne mai sommersa. La danza classica ha attraversato ogni sorta di cambiamento epocale sopravvivendo a monarchie, guerre, stravolgimenti nel campo della politica, della società, dell’economia, adattandosi alle nuove tendenze, trasformandosi pur rimanendo sempre fedele a sé stessa. La danza classica ha viaggiato per il mondo dirigendosi laddove le veniva offerto uno spazio e le risorse per svilupparsi, integrando al contempo tradizioni, visioni e usanze di popoli diversi.

Possiamo dire, con un termine molto in voga fino a qualche anno fa, che la danza classica è un’arte estremamente resiliente, ha saputo fronteggiare le difficoltà e le minacce alla sua stessa sopravvivenza con la capacità di vedere le opportunità e di cogliere, riorganizzandosi positivamente ma senza mai tradire la propria essenza, giunta a noi intatta nonostante tutti questi processi di trasformazione.

Penso che possiamo vedere il segreto di questa tecnica nel fatto che non abbia un solo genitore, ma una moltitudine di danzatori, pedagoghi, maestri, coreografi, didatti, che hanno alimentato questo fiume nel corso dei secoli e continuano a farlo ancora oggi. Credo di poter affermare che nell’arte tutta, compreso anche il teatro di prosa, la letteratura e le arti visive, non esista una corrente che sia sopravvissuta tanto a lungo e in così buona salute come la danza classica. In questa tecnica coesistono visioni, scuole e metodi diversi, senza che nessuno di questi cerchi di sopraffare o eliminare gli altri, anzi, esiste un tacito consenso nel lasciare che queste diversità convivano pacificamente perché se ne riconosce la ricchezza che portano a tutti noi. Solo chi ha un piccolo ego che si crede grande pensa che la propria visione sulla danza sia l’unica verità, perché ormai i ballerini di tutto il mondo hanno compreso quale ricchezza sia poter attingere a questa immensa biodiversità di vedute e strumenti.

La danza classica è un’entità vivente che compie processi di cambiamento su un cammino evolutivo che riguarda la tecnica, l’estetica, il racconto. Fino a che una tecnica si mantiene in evoluzione può reclamare il proprio diritto di esistere in quanto essere vivente. Diversa è la storia per altre tecniche che, sebbene molto più recenti rispetto al balletto, si sono praticamente estinte dopo aver portato a termine il proprio importante contributo alla danza. Sono da considerarsi fasi evolutive, un po’ come il carapace di un insetto che, una volta cresciuto, ha bisogno di liberarsi da quell’esoscheletro, ormai troppo stretto, per crearne un altro che possa contenerlo.

Quando una tecnica smette di evolversi è un chiaro segnale che si sta avvicinando alla sua fine, che ha parlato al suo tempo ma ora non c’è più dialogo possibile, ed è giusto lasciarla andare perché questo è l’ordine delle cose qui, sul piano fenomenico: tutto è temporaneo e in continua trasformazione.

Sto parlando di straordinari e rivoluzionari pionieri che hanno portato una profonda rottura, un cambiamento radicale nel modo di concepire il corpo in movimento, nonché una dichiarazione politica al mondo, personaggi come ad esempio Martha Graham, José Limon, Merce Cunningham.  Le tecniche di cui sono stati i padri fondatori portano il loro nome, come unici genitori di quella visione che, sebbene condivisa con i propri danzatori e collaboratori, rimane comunque una loro creazione e proprietà.

Merce Cunningham aveva continuato a rielaborare e mettere a punto molti aspetti della sua tecnica per tutta la sua lunghissima vita. Persone come lui, che hanno portato un vento di novità non solo sulle geometrie del corpo ma anche sul concetto stesso di artista e del ruolo che ricopre nei confronti della società, come specchio e come critica, sentono giustamente una grande responsabilità nei confronti della propria opera e tendono ad essere molto protettivi. Cunningham fece stilare quello che potremmo considerare a tutti gli effetti un testamento artistico, pubblicato nel 2008 nel quale vennero stipulate le modalità di gestione nella delicata fase di transizione dopo la sua morte. Questo piano prevedeva anche una tournée celebrativa di due anni che doveva iniziare dopo la sua morte e dopo l’ultimo spettacolo era previsto che la Compagnia si sciogliesse.

Di fatto Merce Cunningham lasciò il suo corpo terreno nel luglio del 2009, a New York e a partire della 2011 la Cunningham Dance Foundation e la Merce Cunningham Dance Company cessarono di esistere. Attualmente esiste solo il Merce Cunningham Trust che si occupa di gestire l’immenso repertorio di danze, con il vincolo che tutto ciò che di questo archivio viene messo in scena debba essere curato da ex danzatori di Merce (quindi anche questa possibilità è destinata ad esaurirsi nel tempo). Ad oggi ancora la tecnica Cunningham è studiata in molti centri di formazione professionale, in modo fedele a come veniva trasmessa al momento della sua morte, ma sono certa che oggi Merce, con la sua intelligenza brillante e curiosa, se fosse qui con noi oggi, vorrebbe ancora evolversi in risposta alle nuove tecnologie e ai cambiamenti socio-culturali del nostro tempo.

Avere un solo genitore e non avere la possibilità di passare il testimone a qualcuno che possa portare avanti l’evoluzione attraverso la ricerca, mantenendola viva, comporta alle tecniche il rischio di subire un processo di cristallizzazione e non reggere all’inesorabile giudizio del tempo. Oggi le tecniche di cui sopra sono considerate danza moderna e compaiono nei primi anni di alcuni progetti formativi per la danza contemporanea (sempre meno a dire il vero) poiché non rispondono più alle esigenze atletiche e performative della scena odierna. Questo non vuol dire che ci si sia dimenticati di quale enorme contributo hanno dato alla danza tutta, ma si è scelto collettivamente di lasciarle andare, di permettere loro di trasformarsi attraverso nuove menti e nuovi corpi, in qualcosa di nuovo e più aderente al momento. Anche ai grandi alberi capita che uno dei rami si rinsecchisca poiché per qualche motivo non riesce più a ricevere nutrimento e la pianta accetta che quel ramo rimanga lì così com’è, anche per molto tempo, fino a che non si staccherà naturalmente.

Trisha Brown, ad esempio, ha scelto di dare un nome impersonale al risultato della ricerca che ha compiuto, da sola e insieme ai suoi danzatori: Release Technique. A mio parere si tratta di un gesto dal significato profondo, segna un cambiamento, vuol dire non considerare quella tecnica una proprietà personale ma un vero e proprio lascito ai posteri, tracciare dei principi lasciando ai danzatori la possibilità di utilizzarli per creare le proprie danze.

Un’eredità ancora più straordinaria è quella lasciata da Steve Paxton, che non ha mai voluto registrare la sua Contact Improvisation facendone un sistema chiuso, mettendoci un trade mark di fianco per farlo diventare un mercato delle licenze, un apparato remunerativo (e quindi esclusivo), come accade purtroppo per molte altre tecniche e approcci somatici. La Contact Improvisation sopravvive al suo creatore e non è mai stata così in buona salute, praticata in tutto il mondo da danzatori, artisti marziali o semplici amatori come uno straordinario strumento di indagine somatica che sta coinvolgendo sempre più persone.

Steve Paxton non ha mai mostrato attaccamento alla sua opera e neanche preoccupazione che venisse stravolta o trasmessa in modo diverso dall’originale, perché grazie all’acume e alla generosità che lo hanno sempre contraddistinto, ha compreso che questo non potrebbe in alcun modo inquinare la purezza della sorgente e anzi, ogni nuova visione e apporto non fanno altro che alimentare la verità e la vitalità di questo approccio al movimento.

L’arte è viva!

Evviva l’arte.

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