Lia Courrier: “Danza, talent e televisione”

di Lia Courrier
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Di tanto in tanto mi capita di vedere in rete delle clip tratte da talent americani dedicati alla danza, nelle quali si vedono ragazzi giovanissimi esibirsi su un palcoscenico sbrilluccicante, davanti ad un pubblico entusiasta e urlante (manco fosse a fare il tifo allo stadio), sotto l’attento sguardo di una giuria, composta da personaggi più o meno famosi, che dimostrano di avere un repertorio pressoché infinito di espressioni. Il regista sagace alterna le sequenze più significative di coreografia con inquadrature che mostrano le reazioni dei giurati: la faccetta di approvazione, la faccetta ‘OH MY GOD!’, quella ‘I CAN’T BELIEVE IT!’ e quella ‘GO HOME’.

Questi poveri ragazzi, alcuni giovanissimi, vengono dati in pasto alle telecamere mostrando coreografie costruite apposta per portare all’estremo la prestanza fisica, che per la verità sembrano più sequenze costruite per una gara di ginnastica ritmica: develloppè fino alle orecchie, arabesque squarciati, corpi che sembrano disarticolati, salti acrobatici, contorsioni. Il tutto perfettamente eseguito a dire il vero, ma senza nulla in termini di legatura, poetica e fraseggio del gesto, che possa convincermi di trovarmi al cospetto della danza. Il tutto grottescamente accompagnato da una espressività esagerata ed estrema, tutta rivolta all’occhio della telecamera, spinta verso una drammaticità eccessiva, finta e costruita che, credo di aver capito, stia lì solo per far capire che si tratterebbe di arte.

Ancora una volta mi ritrovo a pensare a come la televisione banalizzi e mercifichi ogni cosa su cui poggia lo sguardo. Se queste sono le premesse, secondo me sarebbe meglio che la danza non ci entrasse proprio in quella scatola maledetta. Non credo sia vero che l’importante è che si parli di danza in televisione, che entri nelle case delle persone come si ama dire in questi casi, poiché se per farlo la si costringe a tradire la sua anima profonda allora quello che alla fine vedremo non sarà danza, ma una sua brutta imitazione. L’unico modo in cui la danza potrebbe far parte dell’intrattenimento televisivo è quello in cui non venga tradita la sua identità, e che se ne possa fruire nella sua manifestazione più sincera, senza necessariamente sottostare ai diktat televisivi in termini di tempi e di estetica. Ditemi in che modo depredarla della sua anima, masticarla e sputarla fuori a pezzettini, dovrebbe essere positivo? Chi sostiene questo abuso come qualcosa di culturalmente significativo, ha idea di cosa sia davvero la danza?

A volte mi chiedo in che modo un linguaggio come il nostro, con i suoi tempi di apprendimento lunghissimi, gli infiniti processi creativi nella composizione, una certa dimensione artigianale del professionista, si possa adattare alla società contemporanea, così ipercinetica e atavicamente affamata, senza perdere la sua essenza. Chi oggi lavora nella ricerca del movimento con serietà e consapevolezza, pur accogliendo i cambiamenti e il progresso, continua a rispettare la natura originaria di questa arte, affrontando con grande coraggio le sfide che essa pone a chiunque si cimenti in questa impresa, che non è fatta solo di estetica ma anche di drammaturgia (nonché di luci, di costumi, di scene) e di quel misterioso ingrediente che è l’urgenza che ognuno di noi porta dentro, la brama di comunicare al mondo il proprio messaggio attraverso un linguaggio non  verbale.  Ecco cosa raccontiamo attraverso la danza, utilizzando certamente un corpo allenato e istruito per questo, ma scegliendo un proprio codice, una propria condizione ed una voce danzante che possa dare vita al difficile processo dall’idea all’incarnazione scenica.

Ce ne facciamo poco dei develloppé alle orecchie e dei salti acrobatici quando manca tutto questo. La danza così diventa solo un carapace abbandonato e privo di significato, una fascinazione veloce e superficiale, senza vita e senza pregnanza. I movimenti si susseguono incessanti e veloci, uno più estremo dell’altro, senza neanche lasciare il tempo per respirare, al danzatore come allo spettatore. Quest’ultimo ormai un bulimico cronico e vorace che non ne ha mai abbastanza: vuole sempre di più, sempre più alte le gambe, sempre più acrobatici i salti, sempre più esasperata l’espressività. Alla fine di questa depravazione il danzatore diventa un mero fenomeno da baraccone, un freak per la cui esibizione bisogna pagare un biglietto.

Vengo a sapere da colleghi, che oggi anche qui, nel nostro Paese che tanto ha dato all’arte tutta, ai concorsi di danza vengono presentate coreografie di questo tipo, una la fotocopia dell’altra, tutte costruite come una sequenza di salti e contorsioni, eseguite spesso da danzatori troppo giovani chiamati ad interpretazioni che neanche Sarah Bernard. Sebbene io non ami per niente l’idea stessa del concorso di danza, (un’amica qualche giorno fa scrisse proprio ‘i concorsi sono per i cavalli’, con buona pace dei cavalli a cui nessuno ha chiesto se si divertono a obbedire a comando), questo mi ha fatto pensare a come sta cambiando la danza, che lo vogliamo oppure no. Chi appartiene alla mia generazione probabilmente alla vista di queste sedicenti coreografie avrà la nausea, ma a molti piacciono, bisogna prenderne atto. Scorrendo sulla bacheca di facebook mi capita almeno una volta al giorno che qualcuno ne condivida una, con tanto di commenti ammirati. Alcuni contatti che non fanno parte del mondo della danza me le inviano anche per chiedermi cosa ne penso. Io rispondo che insegno danza e non ginnastica e quindi non sono in grado di dare un parere, giusto per farci la risata più amara che la storia ricordi.

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