Questa settimana vorrei tornare alle frasi di danza che si perpetuano nel tempo, in seculae seculorum, senza che nessuno si preoccupi di raggiungerne il significato profondo. Dopo la ‘VERA’ danza, un’altra espressione che ogni volta mi lascia quantomeno interdetta è quella pronunciata dai colleghi quando parlano del proprio lavoro con l’appellativo ‘il MIO stile’. Ho già scritto che per me la danza è per tutti ma non è di nessuno, a volte mi annoio da sola quando mi scopro a ripetere sempre gli stessi concetti, ma concedetemi di riportare l’attenzione all’origine, di ritrovare un significato a ciò che siamo qui chiamati a fare con il nostro lavoro. Il senso di possesso di danzatori e coreografi, riguardo alla propria opera, mi è sempre sembrato un controsenso rispetto all’energia che ci muove verso la scena, che ci porta a donare qualcosa di noi agli altri, mossi dalla volontà di condividere questo banchetto per la mente e per il cuore, che è l’arte del movimento. Essere gelosi del proprio lavoro, avere paura che qualcuno possa rubarlo o copiarlo, delimitare il terreno tra ciò che può essere condiviso e ciò che invece è bene che rimanga il segreto di nonna papera per la torta perfetta (questa la capiranno solo i lettori di Topolino), accessibile solo a pochi, è una pratica tanto diffusa quanto immatura, a mio avviso. Viviamo in una società fondata sulla proprietà privata come valore assoluto e irrinunciabile, la nostra cultura è fortemente influenzata da quella americana, in cui viene apposto un trademark su ogni cosa, per poter fare soldi e costruire un nuovo mercato. Io ho sempre visto questo ‘segnare il territorio’ come un prodotto tossico del nostro sistema economico capitalista, che oggi sappiamo essere totalmente fallimentare sia per chi vive nel benessere che per chi invece è costretto a vivere in condizioni di estrema povertà (e le due cose sono strettamente connesse). Mi direte voi: ma di cosa vai farneticando? Cosa c’entra tutto questo con la danza?
Beh, credo che questa espressione così diffusa, ‘il MIO stile’, sia figlia di questo modo di pensare, dove per essere qualcuno devi per forza dimostrare di aver creato qualcosa di unico, che ti distingua dalla massa e di cui poter rivendicare l’originalità. Quando un insegnante si esprime riguardo al proprio lavoro pronunciando questa frase, è consapevole di costruire attorno a sé un’aura di geniale creatività, di superiorità, sebbene poi nella vita reale ben pochi possano dire di aver dato questo genere di apporto.
Innanzitutto è doveroso dire che uno stile richiede anche un metodo, una codificazione dei principi che costituiscono il nucleo della ricerca di un coreografo o di un maestro. Non è una cosa che si fa a tavolino, credo, quanto piuttosto la conclusione di un processo che parte dal corpo per poi, con l’esperienza, divenire talmente cristallino da poter essere sintetizzato in una serie di concetti esprimibili a parole. Nella storia ce ne sono stati tanti: Vaganova, Balanchine, Limòn, Cunningham, Graham, Brown, giusto per citarne alcuni. Hanno cominciando creando danze, spesso proprio per sé stessi, per poi lavorare su altri corpi, arrivando a formulare un training specifico per interpretare quei movimenti con la corretta efficacia tecnica e drammaturgica: è così che, stratificando informazioni negli anni, sono nate le tecniche che portano i loro nomi. La ricerca di questi pionieri, però, proveniva da quella di altri grandi maestri, quello di cui stiamo parlando è un fiume ben grande in cui il contributo di tutti confluisce, in realtà nessuno si è inventato niente da zero, ma ha portato avanti l’evoluzione della danza attraverso il proprio punto di vista. Qualcuno è stato particolarmente geniale, qualcun altro meno, ma ognuno è stato fondamentale. Per questo non comprendo questo desiderio di possesso, anche nei casi in cui non c’è nulla su cui reclamare la proprietà.
Esistono delle persone in Italia, oggi, che hanno fondato un metodo proprio, questo vuol dire che, al di là della validità o meno, si è scritto molto, fatto esperienza su sé stessi e su altri, sintetizzato concetti e principi, e questo è un lavoro che va riconosciuto. A livello etico e legale quel metodo è di chi lo ha inventato. A livello sottile, ogni apporto è immediatamente condiviso con tutti, insegnato agli allievi, e tramandato agli allievi degli allievi, e questa diffusione inibisce il potere della proprietà, poiché più il metodo si espande e meno controllo si può avere sulle modalità con cui questo viene poi trasmesso. Bisogna proprio abbandonare questo senso di attaccamento, che provoca divisione e chiusura, anche io ho un mio modo di condurre le lezioni, che è una sintesi di tutto ciò che ho imparato, ma non potrei mai definirlo ‘il MIO stile’, poiché non sono principi scoperti da me, ma ereditati. Inoltre mi sento in una condizione, come direbbe Bauman, così ‘liquida’ che domani potrei confutare ciò che ho detto oggi e sentirmi comunque coerente rispetto a ciò che trasmetto e nel ruolo di insegnante. Come potrei pensare di definire ‘MIO’ qualcosa che in realtà mi è stato donato da altri? Come definire ‘stile’ questo magma in perpetuo movimento di cui io sono il centro e la periferia contemporaneamente? No, grazie, preferisco lasciare che il mio contributo alimenti il fiume della conoscenza, nell’ambito dell’arte del movimento, in quanto frutto di un lavoro onesto, che cerca di andare in profondità nelle questioni, ma non sento alcun bisogno di etichettarmi in uno stile, lascio fare questa difficile operazione a chi ha le competenze, capacità e intelletto per farlo. Sono faccende troppo serie per me, che con la danza voglio divertirmi.