Lia Courrier e il guardaroba dei danzatori negli anni 90

di Lia Courrier
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Nei primi anni ’90, quelli della  mia formazione, non era così diffuso l’abbigliamento specifico per la danza, così gli unici articoli acquistati appositamente per le lezioni erano quelli indispensabili, come quegli orridi collant ventimila denari rosa porcellino, che variavano nuance con l’uso, passando dal bianco gesso all’azzurrino tenue, a seconda di quanto eri brava con il bucato, che solitamente avevano una riga, spessa come una fune, che in teoria avrebbe dovuto scorrere dietro alla gamba, ma poi in realtà, con le gambe ruotate in en dehors, si trovava una strada tutta sua, creando uno strano effetto ottico a dir poco antiestetico. Per il resto il nostro shopping danzerino vedeva protagonisti i body per le ragazze e le calzamaglie per i ragazzi.

Lasciata alle spalle l’austerità minimalista delle formazioni accademiche, dove era concesso solo coprire l’indispensabile, per approdare alle classi professionali, i ballerini lasciavano libero sfogo alla fantasia, presentandosi a lezione con delle mise a dir poco eccentriche, che rimarranno per sempre stampate nella mia memoria. Io stessa mi sono lasciata sedurre dalla libera creatività del momento, ringraziando il cielo di non essere una nativa tecnologica, garanzia che quelle foto, stampate su carta fotografica in unica copia, resteranno sotto chiave in un luogo dove neanche una calamità naturale potrà farle riemergere, per il bene di tutti.

Gli anni novanta sono stati l’apoteosi della lycra, così lucida da doverla guardare con le dovute precauzioni antiriflesso, per scongiurare ferite alle pupille, spessa come una coltre, normalmente in tonalità discrete come fucsia, giallo, blu elettrico, verde acido, meglio ancora se fluorescenti. Per quella ciurma variopinta che popolava le classi di danza, un capo irrinunciabile era un modello di pantaloni plasticosi che chiamavamo sudarella. Ce n’erano di ogni colore e foggia, ma quelli più  ambiti e all’avanguardia avevano un triplo strato: come un sandwich di stoffa sintetica ripieno di lattice, che nel momento in cui toccavi la sbarra avevi già fatto la sauna completa con la pozza di sudore sotto ai piedi. Rischiavamo di svenire, ma si soffriva, e parecchio, nella speranza vana di perdere peso. Poi c’era chi indossava pigiami smessi, con quelle stampe lisergiche che tanto andavano di moda in quegli anni, con oggettini e animaletti volanti. Tutto doveva essere liso e consunto al punto giusto, adoravamo essere così bohemien, per questo usavamo tagliare i collant per usarli come coprispalla, oppure ci davamo dentro con le forbici sul collo delle T-shirt per farle penzolare dalle spalle (Ricordo la disperazione di un collega, la cui mamma si affaccendava per ricucire l’orlo al collo delle magliette che lui sistematicamente tagliava. Ah queste mamme italiane…) e poi tute e scaldamuscoli di lana multicolore a profusione, capi che spesso venivano anche sovrapposti, come dettava la moda di ‘cercasi Susan disperatamente’: la stratificazione apparentemente casuale come arte precisa al pari dell’ikebana. In certe fredde giornate di gennaio gli esili corpi dei ballerini, inumati sotto quella matassa lanosa, lasciavano scoperti solo i piedini e le manine, salvo poi, con l’avanzare della lezione, liberarsi progressivamente di tutto. Alcuni di loro erano così magri che ogni volta mi chiedevo se davvero ci fosse qualcuno lì dentro, perché toglievano, toglievano, toglievano, ma non arrivavano mai alla fine.

Per le ragazze, un must have era la maglia della salute di lana, bianca o color carne, anche questa un po’ consunta e ingiallita, meglio se ereditata dalla nonna. Caratteristica indispensabile: gli inserti di pizzo o una scollatura molto pronunciata sul davanti, perché anche nella sciatteria più selvaggia non bisogna mai rinunciare alla femminilità. I ragazzi in quegli anni portavano capigliature fluenti e ricciolute, e quando partivano per le pirouette, tutti sudati, con questi capelli svolazzanti, sembrava di stare al parco quando accendono gli idranti per il prato, per questo tra loro era diffusa la fascetta intorno alla testa, quella dei tennisti per intenderci, talmente raccapricciante che ancora me la sogno di notte, totalmente inutile nel tenere sotto controllo le gocce di sudore sparate ad alta velocità dalla forza centrifuga della rotazione. In contrasto con questa specie di carnevale di Rio, spiccavano le teste delle ragazze, acconciate in chignon impeccabili e tirati al punto da far venire loro gli occhi a mandorla, l’attaccatura dei capelli elisabettiana e un invidiabile effetto lifting. Ho ancora davanti agli occhi l’immagine della fila di ragazze sedute davanti al grande specchio, a lavorare di spazzola e forcine, prima di cominciare la lezione.

Ecco, così eravamo nei ruggenti anni novanta. Non spendevamo una lira per il nostro look da sala prove, dal momento che usavamo tutto ciò che non era più presentabile da portare nel quotidiano e ognuno di noi abbinava questi scarti da guardaroba con uno stile proprio. Quando guardo le vetrine dei negozi specializzati, con quei costosi vestiti nuovi e coordinati, riaffiorano sempre alla memoria quei matti che facevano la sbarra in pigiama, col cappellino di lana, e penso che eravamo bellissimi così, senza avere sulle chiappe, a caratteri cubitali, il logo di un marchio.

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