Qualche giorno fa ha ricevuto molto consenso la condivisione, sulla mia bacheca Facebook, della storia dell’aragosta, che durante la sua esistenza cresce in dimensioni finché il suo esoscheletro non comincia a diventare troppo stretto per lei, opprimendola con un senso di disagio e di soffocamento. Ad un certo punto l’aragosta capisce che per continuare a svilupparsi ha bisogno di un cambiamento radicale, allora si nasconde sotto una roccia, abbandona il suo guscio, e se ne costruisce un altro più grande, che resterà la sua casa finché non sarà ora di cambiarla nuovamente. La morale di questa storiella è che la spinta che sta alla base di questo movimento evolutivo è data dal senso di disagio, che porta l’aragosta ad esporsi temporaneamente in tutta la sua vulnerabilità pur di concedersi la possibilità di realizzarsi come essere adulto in questa esistenza. Questa storia è stata raccontata in video da un maestro spirituale, con l’obiettivo di suggerire un punto di vista diverso da cui osservare e affrontare le prove che la vita ci sottopone, ma oggi la faccio mia perché è perfetta anche per raccontare il processo di apprendimento del movimento danzato.
Trovo sia spesso più facile lavorare con allievi totalmente digiuni di studio, o quasi, che non con chi invece ha addosso uno spesso strato di schemi motori non proprio corretti, ormai depositati talmente in profondità, nelle memorie del corpo, da essere molto difficili da scardinare, abbandonare o modificare. Ogni volta che, da insegnante, mi trovo di fronte a questo tipo di sfida, ossia lavorare insieme a studenti che hanno espresso il desiderio di andare più a fondo nella conoscenza della tecnica, in sinergia con le necessità fisiologiche del proprio corpo, il processo che vedo attivarsi è animato da due forze opposte che drammaticamente, per un periodo più o meno lungo, si fronteggiano: da un lato la volontà di migliorare la padronanza della tecnica ed un profondo desiderio di cambiamento, dall’altra la paura di abbandonare le proprie certezze, che hanno rappresentato fino a quel momento un importante punto di riferimento.
Allora cerco di sostenerli assegnando piccoli esercizi personali, mirati proprio a fare delle esperienze precise, per sentire nel corpo qual è l’azione giusta da fare per migliorare quel dato aspetto del movimento in cui sono stati riscontrati dei nodi da sciogliere. Normalmente nel giro di qualche ripetizione l’esperienza aggiunge la consapevolezza e comprensione fisica e mentale, ma nel momento in cui questa piccola nuova abilità viene applicata poi alla normale routine di allenamento, avrà come conseguenza un effetto disorientante. È un po’ come cambiare la posizione di un pezzo del puzzle: nel momento in cui ne modifichiamo uno si renderà necessario poi riorganizzare tutti gli altri incastri attorno.
Nel tentare di applicare le nuove competenze all’interno di vecchi schemi, soprattutto se si sta lavorando su tutto ciò che è in relazione all’allineamento, spesso l’allievo si ritrova a non saper più fare le cose che faceva prima, a non avere più il pieno controllo del suo corpo in movimento, poiché è in atto una riorganizzazione propriocettiva. Tornando alla storiella da cui siamo partiti, questo è il momento in cui l’aragosta prova a fare qualche passo fuori dal suo guscio, senza protezione e vulnerabile. In questa fase è molto facile che l’allievo entri in una sorta di impasse, in un circolo vizioso per cui ogni volta che le difficoltà si presentano, in seguito al tentativo di acquisire nuove competenze, affiora la sensazione di non capire dove si sta andando e perché, così preferisce tornare indietro verso le sue certezze-guscio. A livello razionale sa già che la vecchia casa non va più bene per lui, e che il processo messo in atto per costruirne una nuova, più adeguata e raffinata, è l’unica via possibile per procedere oltre, ma allo stesso tempo la paura del cambiamento, dell’entità delle ricadute sull’esecuzione di movimenti fino a quel momento padroneggiati e di quanto tutto questo processo potrà durare, lo portano ad abitare la vecchia dimora, scomoda ma conosciuta.
Vorrei ricordare a tutti gli allievi, soprattutto coloro che studiano danza con obiettivi professionali, che questo tipo di processo non si compie una sola volta nella vita, ma cento, mille volte. Non è buona abitudine, quindi, rimanere attaccati pedissequamente a ciò che abbiamo acquisito nella nostra prima formazione coreutica, pensando che le cose si imparino a fare una volta per tutte, ripetendo milioni di volte il gesto con modalità seriale, perché ogni tanto è necessario proprio smontare tutto fino al più piccolo pezzo per poi rimontare in un nuovo assetto, per raggiungere un livello più profondo di conoscenza della danza e di noi stessi. Bisogna però essere in grado di resistere nel momento di passaggio, in cui tutto sembra sgretolarsi. Proprio quando ci troviamo in quella situazione, temporanea ma maledettamente instabile, possiamo rimanere ancorati alla fiducia che nutriamo nei confronti dell’insegnante e alla motivazione che ci ha portati ad intraprendere quel processo di cambiamento. Se rimaniamo focalizzati nel presente e nell’onestà del nostro lavoro, superato lo scoglio più aguzzo, all’improvviso, senza neanche sapere come, sentiremo che il corpo riprenderà progressivamente il controllo, e che la nuova abilità sarà stata acquisita. Se invece ci lasceremo tentare dal ritornare nelle nostre vecchie abitudini, la nostra danza rimarrà invischiata in un ristagno di saperi che non contengono il seme dell’evoluzione, e che non ci concederanno il piacere di una danza capace di dispiegarsi nello spazio del corpo, della mente e del cuore.