Da quando ho intrapreso lo studio e la pratica dello yoga, che mi ha progressivamente conquistata in modo totalizzante, mi sono immersa nel meraviglioso mondo della cultura e della filosofia indiana, popolata da un nutrito numero di divinità e personaggi mitologici portatori di insegnamenti e consapevolezza. Subisco maledettamente il fascino di tutto ciò che arriva da quella parte del mondo, mi sembra che ogni cosa io legga, o ascolti direttamente dalla voce dei miei maestri, parli ad una parte profonda e segreta del mio essere, rassicurandomi, mostrandomi uno spiraglio di luce per uscire dalla miseria della condizione umana.
Una figura a cui sono particolarmente legata è Śiva, che insieme a Viṣṇu e Brahmā forma la triade divina chiamata Trimurti, che nella sua interezza rappresenta l’unione di tutte le energie del ciclo della vita: nascita, conservazione e morte. Tra le tante manifestazioni di Śiva ce n’è una che ci riguarda da vicino: il ’Signore della Danza’, ossia Naṭarāja. Una delle possibili interpretazioni vede nella danza di Śiva una rappresentazione simbolica delle energie dell’universo, poiché le vibrazioni prodotte dalla sua danza provocano uno sgretolamento, un progressivo esaurimento di tutto ciò che esiste, una distruzione progressiva che riduce tutto ad un unico punto destinato alla dissoluzione. Tutto rimane sospeso in un vuoto quantico, nel silenzio, fino a che Śiva non riprende a danzare, allora le vibrazioni della sua danza provocano un moto in questo spazio di assenza, ma anche di infinite possibilità, fino a che la questa interferenza non si concentra in un punto, da cui poi l’energia creativa esplode, si espande dando vita ad una nuova nascita, ad un nuovo ciclo. Dalle impronte dei suoi piedi si innalzano le montagne, dal ritmo dei suoi passi si muovono le acque degli oceani, il soffio del suo respiro è il vento che muove le nuvole e non smetterà di danzare finché la sua opera non sarà completata.
Alla figura di Naṭarāja, il danzatore cosmico, è anche dedicata una postura, un asana, che richiede flessibilità, equilibrio, fermezza e presenza. Tutte qualità che appartengono allo yogin perfetto.
Naṭarāja è la rappresentazione iconografica più diffusa di Śiva, colto nell’atto di eseguire una danza detta nādānta, traendo ispirazione da un racconto in cui Śiva danza per trasformare in energia creativa le maledizioni di alcuni Ṛṣi (uomini saggi) che volevano attentare alla sua vita per metterlo alla prova. E’ molto probabile che abbiate già visto questa immagine: Śiva Naṭarāja con una gamba alzata in una posizione che ricorda una attitude croisé devant, con le quattro braccia sollevate che sorreggono i suoi oggetti-attributo e contornato da un cerchio di fuoco.
Nello Śivaismo del Kashmir, di appartenenza tantrica, la figura centrale è proprio quella di Śiva, considerato il Signore Supremo. In questa dottrina filosofica la creazione avviene come una naturale espansione del suo stato di beatitudine, raggiunto attraverso l’assorbimento nella meditazione profonda. Uno stato che non ha desideri e bisogni, immerso nella gioia del cuore, definito in sanscrito con la parola ‘ananda’. Ed è proprio ananda che, quando il momento è maturo, letteralmente esonda per eccesso provocando la nascita del mondo, senza che in Śiva emerga alcun desiderio o volontà di agire. Tutto avviene in modo assolutamente spontaneo e disinteressato perché Śiva, il perfetto yogin, vive al di là della ricerca del piacere e della repulsione, al di là dell’azione e dei frutti che nascono da quella azione.
Ogni cosa gli è indifferente.
Questa immagine ha fatto emergere in me nuove domande su come il danzatore dovrebbe porsi nei confronti del proprio lavoro. Śiva può concedersi un simile atto creativo perché è fortemente radicato nel suo stato meditativo profondo, nella consapevolezza e presenza. La creazione spontanea non è un concetto facile già da comprendere a livello cognitivo, figurarsi farla diventare esperienza vissuta! D’altra parte, però, non dovremmo mai dimenticare la nostra origine divina , in virtù della quale possiamo almeno anelare, tentare di avvicinarci a questo tipo di atto creativo. Sappiamo bene come dietro alla semplicità si nasconda sempre una complessità stratificata e densa e la visione indiana dell’esistenza evidenzia questa struttura labirintica, in cui dietro ogni porta che si apre ce ne sono altre centinaia che si schiudono per mostrarci altrettante visioni differenti sul medesimo oggetto di osservazione. Esiste però qualcosa in questa idea di creazione che colpisce ad un altro livello, che non è quello cognitivo, quanto un’altro più sottile, sensoriale e meno mentale: l’idea che la creatività sia un flusso di potenza pura e luminosa che non dobbiamo far altro che lasciar fluire verso l’esterno. Il nostro compito a questo punto è solo quello di mantenere i canali liberi per il suo passaggio, a livello fisico e mentale, senza limitare la sua espansione, senza soffocare quel flusso con sovrastrutture decorative, che, per quanto meravigliose possano essere, appesantiscono il movimento e ne offuscano la radianza. A questo servono lo studio e la tecnica, a rendere il corpo uno strumento per il passaggio di questa energia, permettendo all’espressione artistica e creativa di essere canalizzata nel medium materico, per poi uscirne fuori in una forma atta allo scopo.
In questo modo forse si può riuscire a mantenere la giusta distanza da ciò che viene fatto, senza aggiungere altro che non sia l’essenza stessa di ciò che desideriamo comunicare. Senza alcuna affezione nei confronti di ciò che abbiamo creato.