Lia Courrier e le emozioni altalenanti dei danzatori

di Lia Courrier
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“Cerco un centro di gravità permanente che non mi faccia mai cambiare idea sulle cose e sulla gente”.

Così recitava una celebre canzone del buon Battiato, ironicamente evocando tutto ciò che probabilmente l’autore stesso rifugge, ossia l’incapacità di modificare la propria opinione, di abbracciare il cambiamento, al quale tutti noi siamo soggetti, volenti o nolenti. In verità sarebbe davvero molesto se qualcuno si arroccasse in una data idea su di noi, magari dopo un singolo evento, senza poter mai a cambiare opinione, senza riuscire a vedere che al di là di quell’episodio esistono altri aspetti, e soprattutto un percorso.

Tutto il vivente è in perpetuo movimento, il nostro pianeta è lanciato ad alta velocità su un’orbita attorno alla nostra stella e nel nostro stesso corpo tutto è in costante movimento e mutazione: dal battito cardiaco al respiro fino ad ogni più piccolo scambio fluido di informazioni tra le cellule. Quali certezze possiamo mai credere di accumulare? Risponderei con la frase che diceva spesso mia nonna davanti a chi sembrava essere troppo sicuro dei suoi fatti: “di sicuro c’è una cosa sola”. Così, senza completare con l’ovvio finale, con quel suo sguardo insinuante tra il birichino e il sentimentale. Tuttavia non è facile allinearsi a questo fiume che scorre senza sosta, a volte ci verrebbe da urlare: fermate la giostra, voglio scendere! Sentiamo il bisogno di avere qualcosa a cui aggrapparci, anche solo temporaneamente.

Se esistono delle creature che più di tutte sono soggette a rimanere sempre tese tra questi due aneliti, ossia il desiderio di movimento e quello di trovare un approdo, queste sono proprio i danzatori. Precari nel lavoro come nella vita, equilibristi delle emozioni, funamboli della chimica endocrina, soggetti ad altalene emotive da far girare la testa a chiunque. Se non fosse tollerata una certa eccentricità nell’ambito dello spettacolo dal vivo, saremmo tutti già etichettati come soggetti borderline o bipolari e in fondo non ho mai capito se scegliamo questo lavoro perché siamo strambi o lo diventiamo in seguito al lavoro. L’allenamento dei muscoli non è nulla in confronto allo sforzo a cui sottoponiamo i nostri cuoricini nel corso di una vita con la danza, continuamente sottoposti a quotidiane prove: le lezioni depressive, quelle in cui ti senti una vera schiappa, quelle elettrizzanti in cui sei posseduto dagli spiriti di Nureyev, Baryshnikov e la Karsavina tutti insieme, le audizioni in cui vieni preso, quelle in cui va tutto male, la scena e l’adrenalina, gli infortuni e il dolore, le volte in cui qualcuno ti dice che lo spettacolo faceva schifo, le giornate di prove inconcludenti, quelle in cui ti danno fastidio persino i vestiti che hai addosso o quelle in cui ti vedi così fantastico da sentirti immortale, per non parlare delle crisi personali che ciclicamente arrivano, quando l’evoluzione bussa alla porta e qualcosa di noi deve morire per far posto al nuovo. Tutta questa continua varietà di stimoli, che possono presentarsi anche in una sola giornata, mettono a dura prova il sistema nervoso che porta le ghiandole a produrre molte sostanze chimiche, da quelle eccitanti a quelle connesse con il parasimpatico.

Guardo i miei allievi alle prese con la fine dell’anno accademico, esami, prove a porte aperte, spettacoli, aspettative. Quelli che stanno per concludere l’ultimo anno di formazione e sono già alle prese con il mercato delle audizioni e cominciano a fronteggiare questo aspetto del mestiere, che viene considerato solo quando ormai ci si ritrova lì in mezzo. Ascolto quotidianamente i loro racconti e inevitabilmente la mia mente torna a quando anche io ero totalmente persa nel flusso del cambiamento, nel passaggio tra una fase e l’altra dell’esistenza danzerina. Onestamente sono grata alla vita di essere non solo sopravvissuta ma anche uscita da quella stanza. Non sento molto la mancanza di quegli anni perché sono stati durissimi da attraversare. Necessari ma duri. Il ricordo di quelle esperienze rimane ancora vivo ed è come passare le dita sui contorni di una cicatrice spessa e fibrosa che ancora ogni tanto si fa sentire, e sebbene ci siano stati anche momenti molto belli, persino indimenticabili, il bilancio finale per me non è stato positivo.

In effetti mi rendo conto che insegnare danza è l’ultima cosa che mi preoccupa ultimamente, trovo fin troppo facile trasmettere semplici principi di movimento che riguardano l’aspetto tecnico della faccenda. Dopo tanti anni di esperienza è una cosa che riesco a fare con una discreta sicurezza e disinvoltura. Mi sento molto più responsabilizzata nel prepararli a ciò che troveranno fuori, allo sviluppo dell’autodisciplina necessaria per gestire tutto l’indotto emotivo portato nel quotidiano dal nostro mestiere: qualcosa che ci portiamo dentro per ventiquattro ore al giorno, festivi compresi. I giovani danzatori dovrebbero essere forniti di un kit di salvataggio per contattare questo centro di gravità permanente quando serve, che non deve essere per forza immobile, ma presente, riportando sempre tutto all’equilibrio, qualsiasi cosa sia successa, mantenendo sempre presente una rassicurante sensazione di stabilità sullo sfondo.

Per stare in equilibrio sulla tavola, il surfista deve essere in grado di collaborare con l’oceano e trovare un punto di quiete tra l’azione e la non-azione. Cavalcare l’onda vuol dire mantenere uno stato di osservazione dinamica, ascoltando il movimento dell’oceano tutto attorno, che sostiene e porta in alto. Nel momento in cui il surfista dovesse essere preso dal desiderio di dominare l’oceano, immediatamente verrebbe sovrastato dall’onda finendo sott’acqua.

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