Lia Courrier: “È molto più utile fare poche lezioni immersi nel lavoro, che cinque senza essere presenti”

di Lia Courrier
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Ogni questione possibile, in relazione alla danza, riguarda la qualità e non la quantità.

La qualità è l’unica via di accesso alla quantità, il contrario non è neanche concepibile.

In una società che ci spinge a pensare che l’accumulo seriale di beni, relazioni e informazioni sia l’unica cosa importante per essere felici e appagati, i giovani danzatori tendono a frequentare più lezioni possibile, a collezionare maestri blasonati sul proprio curriculum formativo, ad accumulare esperienze intense ma fugaci, perdendo a volte di vista la cosa più importante: essere presenti a ciò che si fa.

Negli ultimi anni si è molto diffusa in occidente una pratica che si chiama Mindfulness, un inglesismo molto carino per indicare la capacità di essere totalmente presenti a ciò che si sta facendo, con tutto il proprio essere fisico, mentale ed emozionale. Agli americani piace molto dare un nome a tutto, appropriandosi, masticando e risputando fuori concetti rubati da sapienze più antiche. La Mindfulness coglie i suoi principi dalla meditazione, così come viene proposta dal Buddhismo, dallo Zen e dalla scienza dello Yoga (tre tradizioni che tuttavia propongono la questione da punti di vista profondamente diversi, ma che la Mindfulness ha sintetizzato in uno solo): si tratta di conoscenze millenarie che da sempre hanno sostenuto gli esseri umani nel cammino interiore e nella realizzazione del Sé. Poiché detesto visceralmente ogni inglesismo, mi limiterò qui a parlare di presenza, poiché questa è la chiave per ogni possibile crescita evolutiva, nella vita, in ogni suo aspetto quotidiano, ma anche per procedere con successo in un’attività come la danza, che coinvolge ogni sfera dell’essere nella sua pratica.

La qualità dell’attenzione nelle nuove generazioni è totalmente cambiata rispetto a quella di qualche decennio fa. Hanno bisogno di essere iperstimolate, di ricevere sempre input differenti e di avere risposte immediate a seguito di ogni azione portata da loro nel mondo. Esiste una convinzione diffusa sul fatto che dalla quantità prima o poi possa scaturire la qualità. Da qui il florilegio di stages che coinvolgono tutti i nomi più alla moda del momento, incontri di qualche giorno, un trotterellare forsennato da un maestro ad un altro, accumulando enormi quantità di informazioni che, senza un lavoro approfondito e adeguatamente lungo, andranno per la maggior parte perse. Sono persino comparsi, da diverso tempo ormai, corsi formativi diretti ai giovani danzatori della durata di qualche mese, con una struttura modulare dove ognuno può decidere cosa fare e quando. Questa modalità può essere certamente una brillante opportunità, se sei un danzatore di alto livello che ha una base di esperienza e un bagaglio formativo già concluso alle spalle, ma di danzatori di questo profilo in Italia ce ne sono davvero pochi. Lavoro da decenni nella formazione professionale e posso dire apertamente che il livello generale è basso, non per colpa di qualcuno in particolare ma per il contesto generale di cui abbiamo già parlato diverse volte. La verità è che, nella maggior parte dei casi, quando i ragazzi si avvicinano ad una preparazione professionale bisogna ripartire quasi da zero, su premesse diverse rispetto a quelle conosciute fino a quel momento. Il percorso formativo richiede di essere stabilmente presenti, per un periodo sufficientemente lungo, ai principi di base del movimento, per sviluppare una conoscenza e consapevolezza del corpo che serviranno poi come fondamenta per costruire tutto il resto.

Quello che emerge nelle lezioni, e ancora di più quando si è inseriti in un programma giornaliero dove sono previste molte ore di studio, invece, è proprio la difficoltà di essere presenti a sé stessi per tutta la durata del lavoro.

L’attenzione normalmente viaggia come un’onda ciclica: la curva sale verso un picco nel quale siamo al massimo della presenza, e poi naturalmente questa diventa discendente, momento in cui si potrebbe manifestare una tendenza a distrarsi oppure noia. Queste fasi si alternano continuamente durante la giornata, è così che funziona. Quello che riscontro oggi è una difficoltà a raggiungere il picco in un punto adeguatamente alto, mantenerlo per un certo tempo, ma soprattutto a non permettere che la curva scenda oltre una certa soglia. A lezione mi può capitare di vedere davanti a me, ad un certo punto, sguardi persi nel vuoto, o intenti a guardarsi allo specchio per vedere se i capelli sono a posto, correzioni ripetute mille volte e mai messe in pratica, e molti altri piccoli segnali che mi fanno subito capire quando un allievo si trova fisicamente davanti a me, ma con la mente persa chissà dove. Questo può accadere nell’ultimo quarto d’ora di lezione, ma a volte anche dopo dieci minuti dall’inizio, caso in cui lo studente sta letteralmente buttando via il suo tempo, poiché normalmente arrivati a questo punto si fa molta fatica a far risalire la curva. Per quanto io possa ingegnarmi a trovare soluzioni per venire incontro a questa caratteristica delle giovani menti, la realtà è che la qualità della presenza, la sua stabilità e continuità, sono abilità fondamentali per imparare qualsiasi cosa, specialmente la danza.

È molto più utile fare poche lezioni totalmente immersi nel lavoro per tutto il tempo, piuttosto che farne cinque senza essere presenti in ciò che si fa.

Gli allievi in cui brucia il fuoco della passione, dimostrano una capacità spontanea di rimanere focalizzati stabilmente per lunghi periodi, poiché l’appagamento che trovano nella pratica della danza li spinge in questa direzione. Ci sono altri allievi per cui le motivazioni forse non sono così chiare, l’urgenza di esprimersi attraverso il movimento è nebulosa, e quindi di fronte alla grande richiesta fisica e mentale che la danza pretende, possono sentire la propria attenzione ritrarsi. Questo è uno dei motivi principali per cui non si riesce a progredire nell’apprendimento della danza. I limiti fisici si possono facilmente superare, trasformare, aggirare, se l’allievo studia con presenza e trasporto, ma senza essere presenti a sé stessi possiamo anche studiare per tutta la vita e non riuscire ad apprendere che le basi della danza, forse neppure in modo corretto.

Trovo che la presenza mentale richiesta per apprendere la danza, e per divenire danzatori, sia una delle doti più sottovalutate nel lavoro dell’insegnamento, presi come siamo tutti a guardare la qualità dei muscoli, dei tendini, lo spazio nelle articolazioni e l’estetica dei corpi.

Quanti di voi hanno allievi estremamente facilitati fisicamente, ma che non hanno nessuna metodologia nello studio? E quanti allievi abbiamo avuto che, seppur non particolarmente dotati fisicamente, hanno raggiunto ottimi risultati partecipando sempre con vigore e gioia alle lezioni?

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