Definirsi in maniera altisonante “artisti” è una pratica molto diffusa non solo tra i danzatori ma anche tra chiunque faccia un mestiere in cui sia richiesta anche una dose minima di creatività. Ogni attività umana oggi tende ad assurgere allo status di “arte” anche se, in fin dei conti, nella nostra società degli artisti e della loro presenza non importa poi granché. Definirsi artista è diventato un vezzo, come infilarsi un vestito appariscente con l’illusione che questo possa definire chi sei, con la pretesa di godere gli aspetti positivi e luminosi di questo ruolo, rifuggendo però dalla profondità, dalla responsabilità e dai rischi che comporta stare dentro a quegli abiti.
Ho il privilegio di avere avuto punti di riferimento altissimi nel campo dell’arte tutta, non solo nella danza ma anche nell’ambito delle arti visive, musicali e drammaturgiche, pionieri che hanno offerto al mondo uno sguardo nuovo, spesso scomodo ma necessario per risvegliare le consapevolezze. Personalità uniche e predestinate, portatrici di visioni inimmaginabili, che non si sono limitate a ripetere ciò che era stato fatto fino a quel momento nelle modalità abitualmente utilizzate ma che hanno incarnato idee e modalità del tutto nuove.
Quasi sempre queste persone sono state osteggiate da chi in quello status quo aveva trovato un mercato, sostenitori eccellenti, ossia tutte quelle persone che si definivano artisti ma che in realtà avevano trovato una personale zona di agio nel ripetere (in modo magistrale o mediocre) ciò che era stato loro tramandato e che quindi non avevano alcun interesse a cambiare le cose. L’impeto creativo autentico è un’energia spirituale che non si può fermare e non sono rare le storie di grandi artisti che hanno ricevuto il riconoscimento che meritavano solo dopo aver lasciato questo mondo, perché il visionario messaggio di cui erano portatori (direi meglio canalizzatori) non poteva facilmente essere compreso dai loro contemporanei.
Potrei produrre una lista dei nomi che hanno segnato il mio modo di guardare al mondo e all’esistenza ma sarebbe uno sforzo poco attraente dal punto di vista letterario quindi ne citerò soltanto uno, di cui recentemente ho ascoltato un’interessante intervista che riporto qui in piccolissima parte:
“Ho cercato un lavoro che mi lasciasse abbastanza tempo libero per dipingere per me stesso e ho trovato un lavoro come libraio a Parigi ed era bellissimo perché avevo tantissime ore libere ogni giorno e questo mi ha portato ad una conclusione: o sei un pittore professionista oppure no. Ci sono due tipologie di artisti: da una parte gli artisti professionisti che fanno i conti e che sono integrati nella società, dall’altra parte ci sono gli artisti completamente liberi che non hanno nulla a che fare con la società. Io non volevo dipendere dalla mia pittura per vivere perché questo avrebbe comportato troppi compromessi”
Questo era Marcel Duchamp che diede vita, rielaborò e attraversò le correnti artistiche più creative dello scorso secolo. Lo stralcio di questa intervista racchiude in sé a mio avviso il senso più profondo di cosa voglia dire essere artista. Sono consapevole che oggi, alla luce delle lotte che i danzatori stanno facendo per i propri diritti, un discorso del genere possa sembrare fuori luogo, ma quello che chiediamo attraverso queste rimostranze sono posti di lavoro per danzatori professionisti mentre quello di cui parla Marcel Duchamp riguarda la libertà creativa, il progetto originario di qualcuno che è arrivato al mondo per realizzare qualcosa di luminoso ed è proprio qui che sta la differenza tra chi è artista libero e chi invece è un artista professionista. Non esiste nel mio discorso neanche l’ombra del giudizio verso chi fa il mestiere della scena eseguendo quello che gli viene chiesto con maestria, presenza, tecnica e tutte le qualità che ogni professionista deve necessariamente avere o sviluppare, si tratta di un percorso difficile che richiede una lunga preparazione prima di poter giungere ad un livello competitivo per il mercato del lavoro.
Essere artista però, questo è solo un mio sentire, vuol dire percepire nel cuore e sulla pelle una forma di sofferenza a stare nei solchi scavati da altri, sebbene quei solchi si siano sperimentati, conosciuti, compresi e utilizzati come sostegno per saltarne fuori e lasciare la propria immaginazione libera di esprimersi in modo autentico, lontana da ogni desiderio di apprezzamento, perché un artista crea per sé stesso e non per piacere al pubblico ed è qui la chiave per comprendere la differenza tra l’artista di professione e l’artista libero.
Essere un artista libero non è un percorso che si sceglie ma una predestinazione a cui difficilmente ci si può sottrarre senza soffocare la propria anima, che si manifesta come energia anticonvenzionale e dirompente a sbaragliare il già conosciuto, irrompendo con la bellezza abbacinante di un diamante grezzo che può essere riconosciuta solo da chi possiede uno sguardo attento e una sensibilità altrettanto puntuale.
Oggi mi basta scorrere la bacheca di Facebook per rendermi conto di quanto la pratica dell’autoincensamento sia diffusa tra coloro che si definiscono artisti, pavoneggiandosi per ogni recensione positiva scritta da un critico, per ogni manifestazione di approvazione ricevuta da chicchessia che viene immediatamente condivisa a riprova del proprio valore, quasi più per convincere sé stessi che gli altri. Capisco molto bene la necessità di ricevere consensi, dal momento che anche io sono stata sul palcoscenico per tanti anni, ma ora che mi sono allontanata da questo mondo riesco a vedere lucidamente, da fuori, gli schemi psichici narcisistici e la dipendenza dalla chimica che ne consegue: adrenalina e cortisone prima e durante l’esibizione che chiedono poi di essere riequilibrate dalla dopamina e serotonina degli applausi. Chi svolge il mestiere dello spettacolo dal vivo è spesso tormentato da senso di inadeguatezza, timore di sbagliare, di non essere all’altezza, credo che questo valga anche per le stelle della danza, poiché per loro la posta in gioco è ancora più alta e il senso di responsabilità può schiacciarti se non sviluppi un’adeguata forza mentale, per questo motivo si anela approvazione da pubblico e critica.
L’emanazione di un artista libero è qualcosa che lascia spiazzati perché lontana da qualsiasi aspettativa ma questa libertà espressiva può esistere soltanto se l’artista si muove al di fuori del cosiddetto “sistema di ricompensa” che altrimenti inibirebbe il flusso creativo per modellarlo ad uso e consumo del mercato.
Personalmente non mi sono mai considerata un’artista. Ho sempre cercato di essere una lavoratrice presente, precisa, affidabile, con un’etica personale e professionale ben definita, tecnicamente e culturalmente preparata ma di certo ho sempre fatto le cose così come mi sono state trasmesse dai miei tanti maestri, attraverso l’iterazione tra le discipline e le visioni più disparate sul soma con cui sono entrata in contatto, di certo non sento di aver elaborato qualcosa di nuovo e significativo e anche se fosse dovrebbero essere gli altri a riconoscermi questo merito e non io stessa.
In questi anni in cui sembra che nella nostra meravigliosa lingua debbano essere introdotte nuove regole per portarci verso un linguaggio più inclusivo, rivendico invece l’esclusività della parola “artista”, per indicare solo quelle personalità capaci di aprire porte di stanze che non abbiamo mai abitato prima.