Le esperienze sono segni indelebili, tatuaggi sul tessuto dell’essere, che non possono in nessun modo essere cancellati. Ci sono gli eventi gratificanti che riportare alla mente equivale a farsi una coccola, balsamo per i tempi di magra a ricordarci che questa vita è una preziosa occasione per immergersi nella meraviglia, nonostante tutto.
Poi ci sono gli eventi traumatici e questi, più che tatuaggi, andrebbero considerati come cicatrici che non sempre si rimarginano del tutto, anzi, possono metterci molto tempo e comunque continuare a sanguinare.
Ci sono persone che per incedere nella propria esistenza non avranno bisogno di grande dolore, per altri invece la realizzazione passa attraverso una quantità considerevole di sofferenza. Avendo affrontato lo studio delle discipline yogiche, l’unica parola che mi viene in mente osservando questo pensiero è: Karma.
Il Karma è un sistema perfetto in cui ogni domanda ha una risposta, in cui ogni evento, pensiero, azione, trovano la propria collocazione nel grande disegno dell’universo. Troppe volte viene frainteso o re-interpretato in chiave cattolico-cristiana, intendendo per Karma una sorta di giustizia cosmica, per cui se fai del male poi vieni punito. In realtà al Karma di quello che facciamo non gliene frega poi molto, in quanto all’esistenza di un Dio pronto a bacchettare chiunque non esegua gli ordini, posso dire che nella visione orientale il divino è in noi, non esiste nessun controllore esterno. Il Karma quindi, semplificando al massimo, non è che uno specchio, che rimanda esattamente ciò che porti fuori: quello che dai è quello che avrai, al di là delle riduttive catalogazioni bello-brutto, buono-cattivo e tutte le coppie di opposti possibili.
L’esistenza, nella filosofia Yogica è circolare, non lineare, il che vuol dire che il nostro Karma viene estinto in molte vite e non solo in una. Da qui la risposta alla domanda: perché alcune persone devono affrontare un carico di sofferenza maggiore rispetto ad altre? Dipende dal Karma.
Una di queste cicatrici che stentano a chiudersi è per me quella legata ai disturbi dell’alimentazione, croce del mio passato di adolescente e giovane adulta, che mi hanno privata di una buona fetta di vita e provocato parecchio dolore. Ho lavorato duramente su me stessa per molti decenni prima di riuscire a parlarne e scriverne pubblicamente, come ho fatto su queste pagine tante volte. Negli anni di approfondimento e osservazione della mia storia, la percezione sui percorsi che mi hanno portata in quel baratro è cambiata, o meglio, sono stati svelati nuovi aspetti. Penso di essere arrivata al mondo della danza, che tanta importanza dà alla magrezza (con le conseguenti pressioni che tutti sappiamo), perché evidentemente avevo bisogno di fare esperienza di questa catarsi ma quel vuoto, un vorace buco nero come la pece, dimorava in me da prima e non aspettava che un’occasione per fagocitarmi.
Oggi capita (fin troppo frequentemente, purtroppo) di incontrare sul mio cammino altre persone che stanno attraversando un simile inferno. Spesso si tratta dei miei studenti, o meglio le mie studentesse perché, sebbene la casistica del genere maschile sia in aumento, la prevalenza è ancora femminile. Ogni volta che avviene un nuovo contatto, il mio pensiero è che il karma abbia ancora qualcosa da dirmi, offrendomi occasioni per guardare in faccia ai miei spettri, capire, essere presente, portare la mia esperienza e il mio aiuto a chi ne ha bisogno. Ogni volta ecco che quella cicatrice, a contatto con i vetri rotti che queste persone si portano dentro, si arrossa, si infiamma e ricomincia a prudere.
Entro così in vibrazione, mi sincronizzo con quel campo anche se non vorrei, è una cosa che accade spontaneamente come per le pendole nel negozio di orologi. Nel frattempo cerco di rimanere presente, è indispensabile mantenere sangue freddo e distacco per poter aiutare perché se si rimane intrappolati entrambi nelle sabbie mobili poi è inutile agitarsi, anzi, se lo fai affondi ancora di più. Quindi faccio dieci, venti, trenta passi indietro, divento solida come una montagna, trasparente come l’acqua, offro possibili appigli, osservo e non faccio nulla a meno che non mi venga chiesto, non dico nulla a meno che non sia indispensabile, lascio uno spazio in cui l’altra persona possa scegliere di entrare oppure no.
Negli anni in cui ho attraversato questa landa desolata del disturbo alimentare ho compreso che non puoi aspettarti aiuto dagli altri se non lasci una porta aperta, dando loro il permesso di interagire. Questo genere di disordine porta inevitabilmente a chiudersi in sé stessi, dentro alle proprie manie, ai pensieri ossessivi, ai piccoli rituali di morte quotidiani, che massacrano lentamente ma diventano anche un’ancora, un motivo per alzarsi dal letto. È difficile comprendere i meccanismi con cui questa malattia si dichiara al mondo se non se ne ha avuta esperienza, sembra incredibile che non si riesca ad avere controllo sul gesto più naturale del mondo: nutrirsi. La psiche a volte cattura come la tela del ragno avvolge le sue prede e da quel momento in avanti si è totalmente sotto il giogo di una mente distopica, che fa percepire una fatica erculea riuscire a mangiare una fettina di mela, o smettere di abbuffarsi anche quando dentro si sa bene che poi si starà malissimo.
Si rimane così rincantucciati nelle stanze buie dell’essere e per chi cerca di offrire aiuto può essere difficile persino riuscire a bussare alla porta di quella stanza, figurarsi tirarne fuori la persona.
La psicologia conosce e si occupa di questi disturbi relativamente da poco tempo, non ci sono ancora strumenti davvero utili, anche perché ogni persona è un individuo a sé, con le sue peculiarità, biologia, storia e Karma, per questo per me il sistema di cura protocollare rappresenta un approccio utile ma incompleto, senza dimenticare che spesso quando le persone si rivolgono a specialisti sono già entrati nel tunnel così profondamente da uscirne con grande fatica, come superstiti, con la possibilità di danni permanenti al corpo fisico, certamente a quello psichico e spirituale. Credo sia necessario imparare a individuare i primi segnali d’allarme, la mia sensazione è che una cura precoce possa evitare quell’instaurarsi di schemi e programmi mentali che, una volta sedimentati nell’abitudine e nella dipendenza, sono difficili da scardinare.
Mi rivolgo quindi ai genitori, ricordando loro la necessità di monitorare costantemente i ragazzi sul loro stato di equilibrio psico-fisico, assicurandosi che introducano quotidianamente un buon cibo tramite la bocca (nutrienti), gli occhi (quello che guardano), le orecchie (quello che ascoltano), aiutandoli a stimolare anche la loro intelligenza emotiva. È un gran lavoro, lo so, ma è certamente più difficile e doloroso cercare di risalire in superficie mentre si sta annegando.
Io resterò vigile anche per voi.
Un abbraccio dal cuore del mio cuore a tutte le anime in viaggio che stanno percorrendo questo difficile passaggio.