Anni fa, almeno 15, anticipando i tempi con visionaria premonizione sulla grande trasformazione plastica dei cervelli ad opera delle nuove risorse tecnologiche in arrivo, due bravissime psicologhe tennero in un incontro con lo staff insegnanti di una formazione professionale di danza in cui lavoravo. Si è parlato di come relazionarsi con le nuove generazioni, mantenere la concentrazione in classe, accogliere la distanza che separa insegnanti e allievi colmandola di ascolto e competenze. Le loro argomentazioni presentavano un cambiamento in atto negli schemi mentali, nelle strategie e nel quadro emotivo dei nostri allievi, continuavano a ripetere che se volevamo relazionarci con loro in modo sano ed efficace in termini di risultati, bisognava mettere questo fatto alla base della nostra ricerca, che i metodi didattici che erano stati utilizzati con noi potevano non essere efficaci con loro.
Ricordo di aver ascoltato con molto scetticismo quei discorsi, perché all’epoca ero ancora prigioniera di vecchi programmi mentali legati a un’idea imprecisa della relazione insegnante-allievo, maturata in anni di frequentazioni con maestri che continuavano a replicare i modelli di insegnamento che i loro maestri avevano a loro volta utilizzato, secondo un tramandare che però raramente si è fermato per porsi delle domande. Anche io, mentre ascoltavo le parole delle psicologhe, mi dicevo che se la danza veniva insegnata così da secoli, voleva dire che questo era il modo giusto; mi ripetevo che non ero io a dovermi adattare agli allievi ma loro a dover rispondere alle richieste dell’insegnante e così sul momento misi i contenuti di quell’incontro nel cassetto e me ne dimenticai.
Qualche tempo dopo mi accorsi che quelle parole si erano depositate da qualche parte nel mio sentire, sussurrando al mio orecchio interiore quelle che cominciavano a sembrarmi abbacinanti verità. Mi resi conto che i tempi erano maturi per un cambio di posizione nei confronti di quanto sapientemente le due psicologhe ci avevano detto: non esiste nulla che non possa essere rivalutato, il fatto che una cosa sia stata fatta sempre allo stesso modo per tanto tempo non vuole necessariamente dire che sia la cosa migliore. Può esserlo stata in quello specifico periodo o cultura, ma se quel contesto cambia radicalmente potrebbe non solo non andare più bene ma essere addirittura controproducente.
Ora che tanti anni mi separano dai miei allievi mi rendo conto di cosa si intende per “gap generazionale”, vedo come le nostre menti siano profondamente diverse. Non in termini di peggio o meglio, semplicemente si muovono partendo da diversi parametri, principi e velocità. Accogliere questa realtà e cercare di adattarsi non vuol dire essere indulgente, permissiva o “mollacciona” ma cercare di trovare le giuste chiavi per “agganciare” l’attenzione dell’allievo, incontrandolo esattamente dove si trova. A quel punto sarà possibile portarlo verso i suoi obiettivi senza dover ricorrere ad altra strategia che non sia quella della fiducia reciproca.
Ammetto di aver scritto spesso su questo argomento, ma mai si esaurisce perché il progresso viaggia talmente veloce da non consentire un tempo sufficiente per l’adattamento che già ci si trova ad una fase successiva che rimette in discussione tutti i punti di riferimento. La vita liquida di cui parla Bauman è anche questo, il non riuscire ad afferrare il presente perché si è sempre proiettati verso un futuro che sovente viene percepito come instabile e incerto.
I bambini vengono a contatto con il mondo liquido sempre in più tenera età, con genitori -nella maggior parte dei casi – che si preoccupano più di fotografare ogni istante della loro vita che di guardarlo negli occhi, gesto importantissimo e fondamentale per promuovere l’intelligenza emotiva. Non appena ci si trova a vivere un’esperienza importante ecco che subito si corre a immortalare il momento, quando il bambino vorrebbe soltanto condividere con l’adulto che in quel momento si sta occupando di lui, attraverso guardi e abbracci ricambiati che radicano l’esperienza nella profondità della memoria corporea ed emotiva come positiva, gioiosa, appagante. Spesso non ci accorgiamo di quanto i bambini siano desiderosi di questo, di occhi e le mani diretti verso di loro che non giungano attraverso un medium così straniante e freddo come un cellulare. Non è facile proteggere i bambini dall’esposizione al mezzo tecnologico (nella relazione sia attiva che passiva), penso siano molti gli esperti, però, ad aver dato come indicazione di farlo con estrema cautela e moderazione.
La neuroplasticità è una brutale e meravigliosa capacità intrinseca dei tessuti neurali, incredibilmente vitale e reattiva nei primi anni di vita. Che questo potenziale venga sfruttato a vantaggio del bambino o meno dipende da noi adulti, da quanto siamo in grado di comprendere e sostenere chi non può far altro che dipendere da noi. Se è vero che i bambini sono la speranza per il futuro, allora siamo noi a dovergli dare la speranza di creare un mondo migliore, attraverso il nostro esempio e i modelli educativi che intendiamo adottare.
Date queste premesse mi sembra ovvio che i metodi utilizzati 50 anni fa per insegnare danza non siano adeguati per questa generazione digitale che non mostra solo un differente corredo neurale, ma anche delle vulnerabilità emotive evidenti. Utilizzare parole dure e taglienti con loro, ad esempio, per spronarli o motivarli, produce esattamente l’effetto opposto. Alcuni miei studenti, in formazione come danzatori contemporanei, mi dicono che la lezione di danza classica è una tortura e che una volta finita la formazione non seguiranno più una lezione di balletto.
No, non è per causa mia, se qualche lettore se lo stesse chiedendo, ma di un’idea preconcetta della danza classica, molto diffusa, che la pone sul piedistallo dell’élite, della perfezione, dell’irraggiungibile. Non è neanche perché “la danza classica richiede sacrifici e i giovani non sono disposti a farne”, perché vi assicuro che le altre discipline che praticano ogni giorno sono altrettanto faticose se non di più. Quello che manca nel loro percepito è una dimensione di gioia, di divertimento, di piacere nel movimento che nella lezione di balletto svanisce davanti all’ineluttabilità di una tecnica che impone dogmi e appiccica forme addosso ai corpi. Ne ho fatta quindi una missione personale: permettere ai miei allievi di godere della danza classica, di comprenderne il potenziale nella bagaglio di un danzatore contemporaneo, di vedere quante abilità permette di sviluppare a chi abbraccia questa disciplina con sincerità e onestà, sfruttando ogni possibilità che il proprio corpo possiede.
Cerco di fare del balletto una pratica inclusiva e non esclusiva.
Dite che sono una inguaribile sognatrice? Un’eretica? Inseguo una chimera?
Direi che se così fosse, allora vuol dire che mi trovo esattamente dove dovrei essere.
1 comment
Grazie per questo articolo!
Condivido in pieno le tue parole come insegnante di danza e come educatrice.
Ci sono tradizioni che vanno coltivate e rispettate ma adattandole sempre al contesto e agli allievi con cui entriamo in contatto.
Questo per me significa soprattutto dare importanza al lato artistico della Danza, apprezzare le sensazioni e le emozioni che ogni allievo mette nel suo movimento, rendendolo unico e speciale.
Bisogna insegnare prima di tutto a mettere l’anima in ogni passo, a sentire la musica col cuore … ❤
Cristina