Da mesi mi frulla in testa l’idea di scrivere un pezzo sui reality televisivi, senza però riuscire a trovare una forma adatta che non si limiti ad una sterile accusa. Non è nel mio stile, né nei miei desideri, sparare giudizi al veleno, dal momento che trovo molto più costruttivo ed elegante procedere tramite osservazione e analisi, con la convinzione che ci sia sempre da imparare anche nei contesti in cui proprio non ci si aspetterebbe di poterlo fare. Del resto criticare questo genere di spettacolo, che tuttavia ancora vanta un certo seguito di spettatori fedeli, sarebbe fin troppo facile, per questo preferisco servirmene come spunto per portare la discussione ad un altro livello per osservare la relazione allievo-insegnante da una nuova angolazione, con l’obiettivo di aggiungere strumenti alla nostra consapevolezza di formatori.
Prima di cominciare, però, è doveroso ammettere la mia profonda ignoranza in fatto di reality e di televisione in genere, dal momento che non la guardo da anni, ma sembra proprio non si possa fare a meno di entrare in contatto con spezzoni e video estrapolati da questa trasmissione (non voglio nominarla neanche ma avrete di certo capito a quale mi riferisco) che fanno capolino dalla bacheca dei social, e ogni volta che li guardo ciò che appare evidente ai miei occhi è la manifestazione di una coazione a ripetere tra gli attori di questa relazione, allievi e insegnanti, dove i primi spesso interpretano il ruolo di vittime e i secondi quello dei carnefici. Il giochetto psicologico sembra rifarsi alla sindrome di Stoccolma, secondo cui la vittima sviluppa una dipendenza dalla violenza fisica o psicologica che gli viene inflitta dal carnefice di turno. Per contro l’insegnante che si pone in questo genere di comunicazione, così aggressiva e poco rispettosa per la persona, (al di là delle strategie televisive basate sulla finzione) nasconde certamente delle ferite a qualche livello, che lo portano a gestire in modo molto autoritario, ma poco autorevole, il proprio ruolo. Un abuso di potere, sebbene d’altra parte l’allievo qui sia totalmente immerso nel suo personaggio desideroso di riscatto e rivincita. Anche se dalla descrizione appena fatta queste potrebbero sembrare due energie in contrapposizione, io trovo che invece siamo di fronte all’incontro tra due diverse tipologie di vuoto emotivo, che si manifesta in una relazione autodistruttiva per entrambe le parti.
Parlavo con una mia cara amica, che oltre ad essere una danzatrice ed una creativa di talento, è anche un counselor, quindi attenta alla persona e alla sua sfera sottile. Dalla discussione, ad un certo punto è venuto fuori come nelle relazioni interpersonali, in particolare in ambito di studio o di lavoro, facciamo di tutto per stare bene con gli altri e per creare un ambiente disteso e collaborativo all’interno del gruppo, ma nel momento in cui poi viene raggiunto un livello di benessere stabile e continuativo, per intenderci se stiamo “troppo” bene, cominciamo inconsapevolmente a innescare dei meccanismi di autosabotaggio per tirare fuori qualcosa di cui lamentarci, o un pretesto per accendere un conflitto. Se da un lato è vero che gran parte dell’evoluzione e dei cambiamenti che in essa sono avvenuti, si sono presentati anche come reazione all’insorgere di una difficoltà, e al conseguente presentarsi di un bisogno,è anche vero che in alcuni ambiti questa tendenza può assumere anche una piega decisamente drammatica.
Molti allievi cercano nel maestro il proprio carnefice, perché nel sentire comune il maestro di danza è percepito come un supremo incontentabile che sprona l’allievo a dare il meglio di sé facendo leva sul suo orgoglio, spesso attraverso l’umiliazione e l’offesa. Qualora invece un insegnante desideri costruire una relazione basata sul rispetto della persona, trasmettendo le informazioni con la gentilezza che bisognerebbe sempre riservare ad ogni individuo che incontriamo sul nostro cammino, ecco che l’allievo sente che qualcosa non quadra, che questa libertà, e la responsabilità che ne consegue, non sono facili da gestire senza un gendarme che ti sta col fiato sul collo come il sergente Hartman nel film “Full Metal Jacket”.
Questa tendenza diffusa, per diversi motivi, mi provoca una tristezza profonda: uno perché vuol dire che non siamo capaci di sviluppare sufficientemente autodeterminazione e disciplina atte a spronarci da soli, senza contare su qualcuno che getti continuamente benzina sul nostro fuoco. Poi perché nel momento in cui permettiamo ad un’altra persona di umiliarci o usare violenza psicologica e verbale su di noi, anche se si tratta di qualcuno di cui abbiamo stima, che forse abbiamo anche idealizzato, o semplicemente per un radicato senso del dovere, vuol dire che siamo proprio noi i primi a non rispettarci, e questo è molto pericoloso quando si è inseriti in un ambiente in cui questo tipo di comportamento è non solo tollerato ma persino accettato come presunto metodo didattico. Bisogna costruire dei confini oltre i quali scegliere chi far entrare e chi no, per difendere la parte più tenera di noi da chi ha solo intenzione di utilizzare i nostri punti deboli per mostrarsi forte. Infine, e questo è il punto che più tocca le corde del mio cuore, perché vuol dire che abbiamo bisogno sempre di bere la nostra dose di veleno, che non ci reputiamo in qualche modo meritevoli di vivere immersi nella gioia dell’armonia. I meccanismi con cui vengono costruiti i reality non fanno altro che cavalcare questa insana tendenza affinché ogni spettatore si possa immedesimare, ma questo non fa altro che allontanarci da un’idea sana di relazione tra studente e maestro basata sul rispetto.