Una delle mie più fedeli lettrici mi ha fatto notare un dettaglio interessante sulla vita da teatranti, su cui io stessa ho spesso riflettuto, ossia gli effetti che può avere sull’organismo la permanenza, prolungata e reiterata nel tempo, in luoghi estremamente bui, come il palcoscenico.
Certo, la graticcia di un teatro è un cielo stellato dai mille colori, ma si tratta comunque di luci artificiali, a volte fastidiose per quanto sono potenti, in realtà. Per questioni tecniche la sala teatrale deve essere totalmente oscurata, a tenuta stagna, proprio per poter effettuare prove luci anche in pieno giorno. Il contrasto tra queste forti luci artificiali e l’oscurità tutt’attorno può stancare molto gli occhi.
Più volte ho osservato i tecnici e i macchinisti uscire allo scoperto dopo la giornata di lavoro, quando ancora fuori il sole è alto, come animali degli abissi che riemergono in superficie: pallore argenteo quasi lunare, occhi socchiusi per il fastidio, spesso inforcando occhiali dalle lenti nerissime per difendersi dall’attacco della luce dopo tante ore trascorse al buio dietro alle quinte o in cabina regia.
Tutti noi ormai sappiamo che, per depositarsi nel corpo, la vitamina D ha bisogno che ci esponiamo al sole almeno mezz’ora al giorno con le braccia e il viso scoperti, questa sarebbe doppiamente una sana abitudine per tutti coloro che lavorano in ambienti chiusi e oscurati, come lo è il caldo e profondo ventre del palcoscenico. Per espandere la discussione posso aggiungere che la luce solare è portatrice di quell’energia che lo yoga chiama Prana, assorbita proprio attraverso la pelle esposta al sole (la via primaria di approvvigionamento di Prana è il respiro, ma lo assorbiamo anche attraverso il cibo e l’acqua). Questa energia non porta solo nutrimento all’intero essere, ma anche consapevolezza e saggezza: possiamo considerare il Prana una forma sottile di intelligenza che letteralmente sostiene la nostra esistenza e l’incedere nel mondo attraverso azioni e pensieri, al punto che esistono delle persone al mondo che grazie a particolari pratiche, riescono a sopravvivere per lungo tempo limitandosi al solo nutrimento pranico.
Per quanto invece riguarda le prove in sala e le lezioni, vorrei oggi presentare una questione che mi sta a cuore da tempo: quasi tutte le sale danza che ho frequentato, almeno qui a Milano, sono situate nei piani interrati, probabilmente gli unici luoghi abbastanza ampi e capienti da permettere la creazione di uno spazio per danzare (nonostante la frequente e ingombrante presenza di pilastri che spesso rendono diagonali e manège percorsi dalla forma bizzarra). Forse non conosco bene la situazione in altre parti d’Italia, in quelle regioni in cui il sole è così presente e generoso che non verrebbe mai in mente di seppellire chi danza in un luogo in cui non si possa essere raggiunti dalla sua luce, ma nelle zone da me frequentate per decenni diciamo che probabilmente il costo del mattone e la carenza di spazio in città hanno fatto sì che non ci fosse altra scelta che abilitare i seminterrati ad aule danza.
Purtroppo in questi luoghi spesso la luminosità è carente, l’aria stagnante e l’energia opprimente, con i soffitti bassi e quel senso di compressione che si prova quando dalla finestra puoi vedere solo il cavedio di un tombino. Finché si pratica lezione alla sera forse questa condizione non è così fastidiosa, ma quando si studia al mattino – come molti professionisti fanno – può diventare fastidioso dover accendere le luci, spesso neon, anche in pieno giorno. Non mi stupisce che molte sale danza dei maggiori corpi di ballo siano situate in alto e con almeno un’intera parete finestrata, perché si tratta dei luoghi di lavoro di chi poi dovrà trascorrere una buona parte della giornata in palcoscenico, ossia al buio, così almeno la lezione di danza e le prove che si effettuano in sala possono svolgersi usando la luce naturale anziché quella artificiale.
Oggi ho la fortuna di insegnare in sale al piano terra e con un’intera parete finestrata che affaccia sul cortile. A causa degli alti edifici attorno non è così luminosa come si potrebbe pensare ma comunque al mattino si fa lezione senza accendere le luci e questo è un dettaglio non da poco, che ci permette di sentirci parte della città in fermento anche quando siamo in sala a studiare e sudare, senza quella sinistra percezione dello stare sottoterra, nell’umido, totalmente distanti e separati da quello che accade fuori. Sento molta differenza nella qualità del mio movimento quando vedo il cielo dalla finestra rispetto a quando invece non riesco a scorgere che una buia parete o la strada con i piedi delle persone che camminano sul marciapiede; il gesto sembra essere più leggero, più arioso, il respiro più ampio. Mi sento parte del mondo, porto il mio contributo “allo scoperto”, insieme a tutti gli altri, senza rimanere “nascosta” sottoterra. Si tratta qui di una questione energetica e non solo estetica, non è solo la bella sensazione di ricevere la luce direttamente dal sole che manca, chiunque trascorra molte ore ad allenarsi in ambienti posti ai piani interrati sa esattamente di quale sensazione di libertà sto parlando.
Penso che sarebbe bello disporre di sale danza agli ultimi piani degli edifici, come accade in molte altre città del mondo, con grandi finestre da cui far entrare luce, aria fresca e tutti gli arcobaleni del mondo dopo che ha piovuto.
In attesa che questo fausto giorno arrivi, persino qui a Milano, consiglio di compensare il più possibile facendo lunghe passeggiate all’aria aperta, meglio se fuori città, per ricaricare le batterie in mezzo al verde della natura, colore guaritore per il corpo fisico e lo spirito: stare in un bosco, ammirare la bellezza attorno a noi, opera della più grande artista che si possa immaginare, Madre Natura, è il modo migliore per prendersi cura della salute e dell’umore.
Lasciarsi bagnare dalla luce che filtra tra le foglie è uno spettacolo talmente idilliaco che i giapponesi hanno creato un termine apposta, komorebi, per descrivere questo fugace fenomeno. Komorebi (木漏れ日, dove compare l’ideogramma per “albero” seguito da quello che indica “perdere, gocciolare” e infine il kanji di sole, come a descrivere poeticamente la luce come un liquido che sgocciola attraverso gli alberi) si può usare anche per indicare uno stato d’animo, una sensazione sfuggente esattamente come i raggi di sole che filtrano tra le foglie di un bosco.
Nessun light designer sarebbe in grado di creare una simile meraviglia.
Crediti fotografici: Yang Miao