In un bellissimo libro che parla dello yoga, l’autore offre un’immagine comparativa per spiegare i diversi approcci nei confronti dell’esistenza, che trovo perfetta per introdurre la riflessione che segue.
La montagna è un luogo non sempre ospitale, chi si appresta a scalarla sa che dovrà affrontare grandi difficoltà, a volte fino allo stremo delle proprie risorse. Guidato da una forte motivazione, lo scalatore solitamente si appresta a vivere un’esperienza solitaria, contando sulle sole sue forze, stabilmente focalizzato sull’obiettivo finale. La vetta della montagna è un luogo angusto, piccolo, nel quale i pochissimi che riusciranno ad arrivare fin lì, non potranno di certo rimanerci a lungo. La gloria temporanea che segue la realizzazione di questa impresa, inoltre, comincerà a sfumare ogni volta che un altro scalatore conquisterà una vetta più alta.
Il fiume sgorga dalla montagna e scende giù verso valle. Ogni piccola particella di acqua partecipa indissolubilmente a questo movimento collettivo, che porta l’acqua a cambiare umore lungo il viaggio: si agita nelle rapide, forma pacifici laghetti, si separa in mille rivoli per poi ricongiungersi, scorrendo quieta nel letto principale, fino a raggiungere il mare. Le gocce di acqua si sostengono reciprocamente e compiono il viaggio insieme, lasciandosi andare ad una energia più grande di loro: la collettività prevale sull’individuo. A seconda del contesto in cui ci troviamo possiamo decidere, consciamente o no, se essere scalatori o fiume.
Il problema si presenta quando ci ostiniamo a rimanere sempre sulla vetta, oppure quando ci rifiutiamo di assumere il ruolo di leader anche quando il contesto ce lo richiede, ritraendoci dalle nostre responsabilità. Gli italiani sono da sempre attratti da chi scala la montagna, siamo affetti da una forma incontrollabile di culto della personalità, di venerazione dell’eroe, alla perenne ricerca di qualcuno da assurgere a leader, da cui lasciarsi guidare ciecamente anche in assenza di una comprovata competenza o purezza d’intenti. La famosa ‘chiara fama’ di cui si parla tanto, in particolare nel nostro ambito lavorativo, è spesso un’etichetta che, una volta appiccicata addosso a qualcuno, rende quella persona intoccabile e meritevole di elogi a prescindere da tutto.
Queste sono le riflessioni che emergono all’indomani della trasmissione ‘Danza con me’, che ho guardato dall’inizio alla fine, più per dovere che per piacere. Non sono qui, però, per una critica al programma: non mi sono mai sentita rappresentata dalla visione della danza che Roberto Bolle e il suo entourage trasmettono, quindi trovo inutile e gratuito, per me, parlarne. Vorrei invece analizzare la figura di Bolle non come danzatore o come persona ma come marchio, perché è esattamente ciò che è diventato, un brand del made in Italy. Evidentemente uno scalatore, con meriti indiscussi, talento e una grande passione, Roberto se ne sta da anni arroccato sulla sua vetta, cercando di apparire sempre al meglio di sé, sebbene nel tempo i rigori di quella condizione abbiano lasciato evidenti segni nella brillantezza della sua prestigiosa carrozzeria.
La critica lo osanna e lo porta sempre in palmo di mano, mai nessuno si sognerebbe di fare il contrario, quando invece una critica sana dovrebbe essere obiettiva e non cadere in certe banalità gratuite che hanno più il sapore di piaggeria che non un vero tentativo di analizzare lo stato della danza in Italia. Una critica apolitica, onesta e disinteressata, farebbe davvero un servizio utile alla danza, ma anche a Roberto, che si troverebbe finalmente ad affrontare la sfida di scavare dentro di sé, ogni giorno, alla ricerca di nuove danze e di nuove forme, senza dare per scontato di poggiare il suo (pur bellissimo) fondoschiena sul trono dorato. Lo stesso da cui ci ha letto i testi che sono stati scritti per lui dagli autori della trasmissione, che ci restituiscono un’idea della danza inesorabilmente puerile e scontata.
Roberto Bolle è ambasciatore della danza.
Ambasciatore è colui che si reca nel mondo per conto di uno Stato o di una comunità, questo vuol dire che dovrebbe idealmente rappresentare tutti, o tenere conto di tutte le voci che di quella comunità fanno parte. Non è il caso di Bolle, che ai miei occhi appare certamente un ambasciatore puntuale e tenace, ma solo di sé stesso. Vorrei che non parlasse in nome della Danza (volutamente con la D maiuscola), che racchiude in sé tutta la meravigliosa biodiversità che vi si muove dentro, in un fermento vivo e continuo di cui lui sembra non conoscerne neanche l’esistenza, ma che si limiti a parlare della “sua” danza. Tuttavia, dato il potere mediatico di cui il brand Bolle gode in questo momento, sarebbe stato un bel gesto voler dedicare un momento per raccontare la difficile realtà italiana sui mestieri della danza (tra cui anche la chiusura dei corpi di ballo), ma si è scelto volutamente di ignorare le questioni della collettività per favorire l’individuo.
La montagna è un luogo esclusivo, che consente l’accesso a pochi. Proprio per questo essere sulla vetta comporta delle responsabilità.
Il fiume è inclusivo. Tutte le gocce contribuiscono al moto collettivo, ed ognuna rappresenta pienamente il fiume nella sua interezza. Per poter essere ambasciatore, il brand Bolle dovrebbe scivolare giù dalla montagna in forma di fiume, mescolarsi con le altre gocce per conoscere tutte le innumerevoli forme dell’acqua, perfettamente degne e coerenti a sé stesse.
Altrimenti chiamiamo le cose con il loro nome: operazione di marketing.