Molto tempo fa mi capitò tra le mani la trascrizione di una conferenza che il sublime poeta Federico Garcia Lorca tenne a Cuba nel 1930: ‘Teoria y juego del Duende’. Il suo contenuto mi scosse nel profondo per la forza dei concetti e delle immagini, almeno per il mio modo di vivere la danza e la creazione artistica in generale. Il poeta parla del Duende, il daimon oscuro e potente della creazione, lo spiritello irriverente che infonde la vita ad ogni emanazione artistica, in particolare a tutto ciò che viene espresso attraverso il corpo, poiché il Duende arriva per scuoterlo, trasfigurarlo, rompere ogni possibile barriera legata alla forma e alla struttura, alle regole e al comune senso della bellezza, per gettare tutti, osservatori ed esecutore, in quell’abisso mai abitato in cui tutto può accadere.
La creazione artistica, catartica come la morte della fenice, grazie al demone si produce in un fiotto inarrestabile, lasciando storditi e senza fiato, ebbri di questa energia magnifica e spaventosa. Lorca contrappone il Duende alla Musa o all’Angelo, che ispirano e guidano dall’esterno, creature eteriche a cui i poeti prestano ascolto, ricevendo i loro suggerimenti come zefiri che sussurrano all’orecchio, per concedere l’ispirazione, qualcosa che proviene da spazi alti e altri, e rappresentano quella scintilla divina contenuta nostra natura di terrestri mortali. Ma la vera lotta, ci allerta Lorca, è con il Duende: “Il sopraggiungere del Duende presuppone sempre un cambiamento radicale di ogni forma rispetto a vecchi piani, dà sensazioni di freschezza del tutto inedite, con una qualità di rosa appena creata, di miracolo, che produce un entusiasmo quasi religioso ”. Spirituale, preferisco dire io, non me ne voglia Federico Garcia.
Questa idea così sanguigna della creazione artistica risveglia in me ardore e passione, poiché ho sempre percepito come nell’atto creativo della scena esista una consistente componente fatta di note nere, di mani che scavano con le unghie nel fango, di corpi spossati ma allo stesso tempo energizzati, teste spettinate e profondi tremori. Una sorta di gentile possessione in qualche modo.
Sebbene il balletto si sia maggiormente sviluppato nel periodo romantico, e la sua iconografia riguardi principalmente principi esangui e donne eteree, vestite di veli evanescenti e col cuore tremolante d’amore, sicuramente più simili ad angeli che a demoni, questo non riguarda che i personaggi da interpretare, poiché in verità io so che la dura scorza delle ballerine, questi fiori d’acciaio, è composta di materia affine a quella che dà vita al Duende. Lorca parla del suo potere sui corpi delle ballerine, nel suo caso ovviamente si riferisce a quelle del flamenco, su cui il Duende opera “come il vento sulla sabbia”, ossia ridisegnando e ridefinendo i contorni ogni volta in modo unico, irripetibile e totalmente imprevedibile. Anche se potrebbe non sembrare, data l’estrema codificazione estetica del linguaggio ballettistico, in ogni danza e in ogni ballerina, esistono anche queste tonalità, yin e yang si completano a vicenda, Odette e Odile, e un aspetto non potrebbe esistere senza l’altro, anzi, un aspetto rende possibile la presenza e la brillantezza dell’altro. Nello studio della danza classica trovo interessante stimolare anche questa parte più istintiva, portata da una forza che arriva dalle viscere più che dalla mente, che distrugge per creare, portando la danza in mare aperto durante la tempesta, con la consapevolezza che è molto meglio seguirne il movimento, anziché tentare di opporvisi per mantenere il controllo. Dal punto di vista del Duende, la danza non è qualcosa che si esegue, ma una energia da cui si è posseduti.
Radicarsi nella terra, utilizzare il proprio peso per sentire un corpo più plastico e potente nello spazio, ammaliare con la seduzione irresistibile e sfacciata di gambe e piedi, liberarsi nello spazio senza mai essere davvero in asse, fluttuando in una condizione di rischio costante ai limiti del disequilibrio, mantenuti in piedi solo dalla potenza della dinamica. È anche così che si può dare più spazio a questa componente, rompendo lo status quo, evidenziando nuovi scorci da cui contemplare questa arte antica. Sono infatti dell’idea che il balletto possa incontrare questo daimon, ci sono coreografi nella storia recente che lo hanno brillantemente sfidato con risultati davvero notevoli e inequivocabili, impregnati della sua presenza. Penso all’interpretazione della immensa Silvie Guillem, nel balletto di William Forsythe ‘In the middle somewhat eleveted’, ma anche il recentemente scomparso Patrick Dupond, e mi viene la pelle d’oca all’istante perché stiamo parlando di artisti “enduendadi”.
Trovo molto divertente distaccarmi da questa idea tutta rosa, tutù e zucchero che la danza classica evoca nell’immaginario collettivo, che comunque rimane come connotazione non scindibile dal balletto stesso, ma sento anche l’indispensabilità delle ombre, degli aspetti più selvaggi e poco bazzicati di questo linguaggio coreutico che mi sembra avere ancora moltissime piccole e grandi cose da scoprire, nonostante si sia già detto (e fatto) molto su di lui.
Insomma: la tecnica sappiamo tutti come definirla, siamo tutti in grado di riconoscere e apprezzare un movimento correttamente eseguito, così come sappiamo vedere quando un bel corpo perfettamente corazzato di tutto ciò che la danza richiede, ma “il Duende…dov’è il Duende? Dall’arco vuoto entra un’aria mentale che soffia con insistenza sulle teste dei morti, alla ricerca di nuovi paesaggi e accenti ignorati; un’aria con odore di saliva di bimbo, di erba pesta e velo di medusa che annuncia il costante battesimo delle cose appena create”.
Ecco. Non avrei saputo dirlo meglio di così.
Crediti fotografici: www.casadelarteflamenco.com