DISCUSSIONE: La lista degli orrori contenuta nella prima parte di questo numero riporta inevitabilmente la mia attenzione alla relazione tra insegnante ed allievo, perché nella mia esperienza tanto più questa è sana, tanto più l’allievo avrà la possibilità di instaurare, a sua volta, una relazione equilibrata con sé stesso e con il proprio lavoro. È chiaro che ogni individuo è una storia a sé, che esistono questioni legate alla famiglia, al temperamento, alle esperienze vissute e ai traumi pregressi, che incidono molto sulla strategia di vita che ognuno di noi sceglie di abbracciare, ma credo che, in quanto insegnanti, possiamo fare davvero tanto. Questo non vuol dire esporsi personalmente, o sostituirsi al genitore o al supporto psicologico, il nostro campo d’azione è e resta l’insegnamento della danza, ed è proprio attraverso il modo in cui lo facciamo, dalla nostra presenza, che possiamo portare un messaggio di armonia e rispetto.
Nel suo libro, “WA, la via giapponese all’armonia” l’autrice Laura Mai Messina cita il detto popolare homete nobasu, che vuol dire: crescere lodando. Nella cultura di questo paese non è consigliabile sgridare o forzare per sviluppare mente e competenze, molto meglio evidenziare le abilità e i risultati positivi a seguito dell’impegno dimostrato. In questo modo l’esperienza dell’apprendere viene associata alla gioia e al sentirsi accettati, visti, apprezzati. Alla felicità, insomma, e questo non fa che rinforzare quel comportamento virtuoso, permettendo allo studente di conoscere i suoi punti di forza, oltre che le carenze. Gli si darà la possibilità di avere fiducia nel proprio potenziale, e questa è una ricchezza inesauribile, nonché l’unico modo per portarli ad essere indipendenti dal maestro: obiettivo – questo – che dovrebbe stare in cima alle priorità di ogni formatore.
Ci sono insegnanti di danza che purtroppo abusano del potere che gli viene conferito, e questo paradossalmente avviene molto di più nel caso di insegnanti che sanno avvolgersi di questa aura di onniscienza, riconosciuta la quale sembra loro consentito ogni eccesso, in nome di chissà quale sacro fuoco. Per fortuna esistono anche molti insegnanti amorevoli, che fanno il proprio lavoro con l’unico interesse di accompagnare gli allievi in un percorso di crescita, sotto ogni aspetto, ma sappiamo bene come basti incontrarne uno, uno soltanto, che invece non ha risolto le proprie questioni personali e utilizza l’umiliazione, o la violenza fisica e verbale, per proiettare il proprio disagio psichico sugli allievi, per rovinargli la vita per sempre. Certi incontri lasciano delle crepe nell’anima che non puoi aggiustare in nessun modo, se non colandogli dell’oro dentro, come avviene nel kintsugi giapponese, facendo di quelle ferite un prezioso ornamento dal profondo significato.
Il mondo della danza è composto di corti e di cortigiani e quando un insegnante gode del riconoscimento pubblico, ogni cosa gli viene concessa e ogni comportamento distruttivo non solo tollerato, ma addirittura desiderato. Un esempio classico è: “se mi tratta male vuol dire che ci tiene”, oppure “ho bisogno che mi tratti male perché così mi sprona”. La persona che applica un simile pensiero, pensa di meritare i maltrattamenti, anzi, li desidera poiché non riesce a vederli come l’espressione delle questioni personali irrisolte del docente, ma interpretandole come attenzioni particolari rivelatrici del proprio talento. È una forma pensiero che corrobora la falsa idea che per apprendere sia necessario sempre soffrire, pagare uno scotto. Perché, invece, non crescere lodando?
Il fatto che in passato i maestri usassero metodi da gestapo non vuol dire che avessero ragione!
Gli insegnanti sono al servizio degli studenti, non è il contrario, questo bisogna dirlo chiaramente.
Ancora oggi mi ritrovo ad ascoltare testimonianze di allievi che hanno paura di andare a lezione da quell’insegnante, perché temono le sue reazioni nel caso di errori. Allievi che si sentono dire frasi pesanti dette con il solo scopo di ferire, commenti sulla forma fisica, parole taglienti come lame che pesano sul cuore e sulle scelte future di queste persone, tanto che alcuni scelgono di smettere di danzare. Qualche cortigiano direbbe: “e si vede che quelle persone non hanno la stoffa per fare questo mestiere”, io invece dico che ogni persona ha bisogno di un metodo diverso, e che questo è il vero lavoro dell’insegnante. Trovare la chiave per ognuno.
Quando viene sfondato il confine tra severità e abuso, non c’è da aspettare, bisogna allontanarsi da quella persona o fare in modo che venga allontanata, non importa chi è o quale sia il suo curriculum, la sua fama: evidentemente si tratta di qualcuno inadatto ad insegnare.
Tutte le specie animali proteggono i cuccioli, non solo i propri o quelli della propria specie, ma addirittura quelli di speci differenti. Non so per quale motivo, invece, la specie umana permette ad estranei di maltrattare i propri figli, di minare la propria salute psichica, accettando questo comportamento come parte necessaria del processo di apprendimento della danza, mentre con i professori scolastici si manifesta certamente meno indulgenza.
Nell’ambito dello yoga, forse anche per l’enorme sviluppo che ha avuto negli USA, popolazione che non ama molto il contatto fisico, o forse alla luce degli scandali di cui abbiamo parlato, si è ormai sviluppato un codice di comportamento per quanto riguarda le correzioni attraverso il tocco. Esistono addirittura centri di yoga in cui puoi apporre un cartello sul tuo tappetino con la scritta: ”no adjustment, thank you”, così il maestro sa che quella persona non vuole essere toccata, facilitando le cose attraverso la chiarezza. Non c’è alcun giudizio nei confronti dell’insegnante, solo l’esercizio di quella famosa libertà di dire di no. Del resto non conosciamo le storie personali delle persone che vengono a lezione da noi, come vivono la relazione con il proprio corpo, come stanno psicologicamente, se hanno avuto in passato esperienze di violenza fisica o semplicemente sono adolescenti timidi che stanno vivendo una fase delicata nella quale non riescono a dare una giusta interpretazione al contatto fisico.
Negli ultimi anni anche io, nonostante abbia fatto un lungo percorso che ha per centro proprio il tocco terapeutico, ho cominciato a toccare meno gli allievi, ed è stata una bellissima scoperta perché ho dovuto allenare la mia capacità oratoria, l’arte della sintesi e del tempismo. Inoltre è bello vedere gli allievi che trovano da soli la soluzione nel corpo, anche senza il bisogno di stringere, spingere e tirare. Ovviamente con coloro che conosco e con cui c’è già stato un primo contatto, quando serve utilizzo anche le mani, ma spesso chiedo prima il permesso.
I fatti riportati, e che ho scelto di mettere in connessione all’interno di un disegno più grande, ci dicono che le cose stanno cambiando, che da vari ambiti di lavoro con il corpo si sta alzando una voce che chiede rispetto, confini, ci dice i vecchi giochi non sono più ammessi, per questo anche nell’ambito della danza sarebbe bene cominciare a farsi delle domande su certi metodi didattici accettati a priori, tramandati da insegnante ad allievo, ma che potrebbero essere lesivi della persona. Cominciare a stendere delle linee guida per osservare una certa linea di comportamento, nella quale non siano inclusi graffi, calci, umiliazioni, insulti e offese, potrebbe essere il prossimo passo. Non vuol dire ammorbidirsi, vuol dire trovare nuovi strumenti per trasmettere.
Il lavoro di un maestro è costruire, non distruggere.
Photo by Malcolm Dunbar/Picture Post/Getty Images