Non so se conoscete la famosa storiella dell’aragosta, che cresce sempre di più in dimensioni finché il suo esoscheletro non comincia a diventare troppo stretto per lei, opprimendola con un senso di disagio e di soffocamento. Ad un certo punto l’aragosta comprende che, per continuare a svilupparsi, ha bisogno di un cambiamento radicale, allora si nasconde sotto una roccia, e si prepara ad abbandonare il suo guscio, per poi costruirsene un altro più grande, che resterà la sua casa finché non sarà ora di cambiarla nuovamente. La morale di questa storia è che la spinta che sta alla base di questo movimento evolutivo è data dal senso di costrizione, da quel disagio che porta l’aragosta ad esporsi temporaneamente in tutta la sua vulnerabilità, ad abbandonare la sua corazza protettiva, pur di concedersi la possibilità di realizzarsi come essere adulto.
Ho ascoltato la storia dell’aragosta da un maestro spirituale, credo con l’obiettivo di suggerire un punto di vista diverso da cui osservare le dure prove a cui la vita ci sottopone, e oggi la faccio mia perché è perfetta anche per raccontare il processo di apprendimento del movimento danzato.
Trovo sia spesso più facile lavorare con allievi totalmente digiuni di studio, o che provengono da altri tipi di lavoro con il corpo, che non con chi invece ha addosso uno spesso strato di schemi motori pregressi, magari non proprio corretti, ormai depositati talmente in profondità, nelle memorie del corpo, da essere molto difficili da scardinare, abbandonare o modificare. Ogni volta che, da insegnante, mi trovo di fronte a questo tipo di sfida, ossia lavorare insieme a studenti che vogliono approfondire la tecnica, in sinergia con le necessità fisiologiche del proprio corpo, il processo che vedo attivarsi è animato da due forze opposte che drammaticamente si fronteggiano: da un lato la volontà di migliorare la padronanza del movimento ed un profondo desiderio di cambiamento, dall’altra la paura di abbandonare le proprie certezze, che hanno rappresentato fino a quel momento un importante punto di riferimento.
Allora cerco di sostenerli assegnando piccoli esercizi personali, che mirano a fare delle esperienze precise nel corpo, con l’obiettivo di comprendere qual è l’azione giusta da fare per migliorare quel dato aspetto del movimento in cui sono stati riscontrati dei nodi da sciogliere. Normalmente nel giro di qualche ripetizione l’esperienza porta comprensione fisica e mentale, ma nel momento in cui questa nuova abilità viene poi applicata alla normale routine di allenamento, avrà come conseguenza disorientamento. È un po’ come cambiare la posizione di un pezzo del puzzle: nel momento in cui ne modifichiamo uno si renderà necessario poi riorganizzare tutti gli altri incastri attorno.
Nel tentare di applicare le nuove competenze all’interno di vecchi schemi, specialmente per tutto ciò che ha a che fare con l’allineamento, spesso l’allievo si ritrova a non saper più fare le cose che faceva prima, a non avere più il pieno controllo del suo corpo in movimento, poiché è in atto una riorganizzazione, sia dal punto di vista propriocettivo che per coordinazione e dinamica. Tornando alla storiella da cui siamo partiti, questo è il momento in cui l’aragosta prova a fare qualche passo fuori dal suo guscio, senza protezione e vulnerabile. In questa fase è molto facile che l’allievo entri in un circolo vizioso per cui ogni volta che le difficoltà si presentano, a seguito del tentativo di acquisire nuove competenze, affiora quella sensazione di smarrimento e perdita di controllo, così si preferisce tornare indietro verso le certezze-guscio. A livello razionale sa già che la vecchia casa non va più bene per lui, e che il processo messo in atto per costruirne una nuova, più adeguata e raffinata, è l’unica via possibile per procedere oltre, ma allo stesso tempo la paura del cambiamento, dell’entità delle ricadute sull’esecuzione di movimenti fino a quel momento padroneggiati e di quanto tutto questo processo potrà durare, lo portano a ritornare nella vecchia dimora, scomoda ma rassicurante.
Vorrei ricordare a tutti gli allievi, soprattutto coloro che studiano danza con obiettivi professionali, che questo tipo di processo non si compie una sola volta nella vita, ma cento, mille volte. Non è buona abitudine, quindi, rimanere attaccati a ciò che abbiamo acquisito nella nostra prima formazione coreutica, pensando che le cose si imparino a fare una volta per tutte o ripetendo milioni di volte il gesto con modalità seriale, perché ogni tanto si rende necessario smontare tutto fino al più piccolo pezzo e poi rimontare in un nuovo assetto, per raggiungere un livello più profondo di conoscenza della danza e di noi stessi. Non vuol dire necessariamente che quello che avevamo imparato non serve a niente, ma che nuove sapiente sono necessarie per progredire in modo coerente con la nostra evoluzione fisica e cognitiva. Bisogna però essere in grado di avere pazienza e credere nel processo, proprio in quel momento di passaggio, in cui tutto sembra sgretolarsi. Se rimaniamo focalizzati nel presente e nell’onestà del nostro lavoro, sostenuti dall’insegnante, una volta superato lo scoglio più aguzzo, all’improvviso, senza neanche sapere come, sentiremo che il corpo ritroverà progressivamente il controllo, e che la nuova abilità sarà stata acquisita e metabolizzata. Se invece ci lasceremo tentare dal ritornare nelle nostre vecchie abitudini, la nostra danza rimarrà invischiata in un ristagno di saperi che non contengono il seme dell’evoluzione, e che non concederanno il piacere di una danza capace di dispiegarsi nello spazio.