Lia Courrier: “Il saggio di danza viene vissuto come se fosse la prima del 7 dicembre al Teatro alla Scala”

di Lia Courrier
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La mia bacheca social si riempie in questi giorni della cronaca di tutti i saggi che i colleghi e le colleghe hanno portato o porteranno sulle scene dei teatri e delle palestre di tutta Italia. Una carrellata densa di colori, sorrisi, emozioni, costumi, abbracci, stelline negli occhi, glitter, ombretti e scarpette scorre in centinaia di foto, accompagnate da parole dense di significati che spesso raccontano la fatica di portare a casa questo risultato e di ringraziamenti a tutti coloro che lo hanno reso possibile. Sono momenti importantissimi per le scuole di danza, nei quali si condensa il lavoro di un anno, occasioni in cui sia gli allievi che gli insegnanti possono misurare le proprie capacità tecniche e creative per fare sempre meglio.

Questa tipologia di esibizione, riporto attenzione su questo, si chiama saggio, ossia una prova dimostrativa delle capacità e delle attitudini degli allievi e delle allieve con lo scopo di dimostrare il grado di preparazione nell’arte della danza. Faccio questa precisazione perché credo sarebbe bene non vivere questo appuntamento come se fosse la prima del 7 Dicembre al Teatro alla Scala. Questo non vuol dire che il saggio della scuola di danza non sia importante, anzi, rappresenta quell’apice irrinunciabile in cui tutto lo studio realizzato trova un naturate compimento sulla scena e poi, inutile dircelo, sappiamo benissimo quanto l’approvazione dei genitori sia fondamentale e come il saggio sia oggi considerato una vetrina per la scuola stessa.

La mia prima maestra di danza realizzava dei saggi nell’accezione più stretta del termine, semplici e ben fatti, in cui le coreografie si susseguivano una dopo l’altra senza trama e senza scenografie. La preparazione del saggio metteva alla prova soprattutto la nostra capacità di sviluppare strumenti e abilità tecniche e così la preparazione di questa esibizione era principalmente occasione per studiare le variazioni, imparare passi nuovi e difficili, sviluppare quel senso spaziale della coreografia, del danzare insieme agli altri. I gruppi delle più piccole avevano addirittura un maestro accompagnatore al pianoforte che suonava in quinta per seguire queste piccole ballerine ancora incapaci di padroneggiare la musica, un piccolo accorgimento che però rendeva tutto magico e coerente. Lo stile così minimale ed essenziale con cui ho conosciuto la danza è rimasto profondamente impresso nel mio gusto personale quando assisto ai saggi di danza, perché è in questo tipo di esibizione semplice e scarna che effettivamente si può apprezzare il lavoro tecnico e artistico degli allievi.

Ho l’impressione che nell’ultimo decennio, soprattutto dopo le chiusure forzate a causa della pandemia, si si sia perso il senso e il significato di questo momento che rappresenta certamente un importante corollario a conclusione di un anno di studio della danza ma che non è da considerarsi l’unico traguardo da raggiungere, quello su cui investire tutte le energie. Penso che, ancora una volta, complice di questa trasformazione del saggio di danza nello spettacolo più importante del secolo, sia questa cultura dell’ego che permea un po’ tutti gli ambiti della nostra esistenza, il desiderio di sentirsi protagonisti, di essere al centro dell’attenzione, di far apparire tutto ciò che facciamo sempre sfavillante e favoloso. Tutto questo a braccetto con la dilagante, eccessiva competitività che spinge le scuole a fare sempre di più per sentirsi i migliori sul territorio, quelli che hanno realizzato lo spettacolo più bello, quelli che – come spesso si usa dire con un’espressione che racchiude in sé la violenza latente di questa tendenza – hanno “spaccato”. Quella stessa competitività che affligge gli ambienti dei vari concorsi di danza, che non frequento ma da cui ho ricevuto dei racconti in cui risulta evidente che spesso le scuole sarebbero disposte a tutto pur di aggiudicarsi i premi. Cosa potrei dire a riguardo se non che trovo questo atteggiamento molto distante dall’idea della danza che custodisco nel cuore.

Credo non si debba mai perdere di vista lo scopo del servizio che offriamo in qualità di insegnanti, ossia formazione e non produzione di spettacoli, il che vuol dire che il focus resta sempre quello di studiare e migliorare attraverso lezioni di danza appositamente costruite allo scopo, di qualunque tipologia di danza si tratti. La creazione di spettacoli così complessi ed elaborati costringe ovviamente gli insegnanti e i direttori della scuole a diminuire progressivamente il tempo dedicato allo studio fino a farlo diventare un mero riscaldamento funzionale alla sessione di prove, con lo scopo di arrivare in tempo con tutti i materiali coreografici non solo costruiti ma anche ben eseguiti, considerando anche che ogni gruppo di solito presenta più coreografie.

Nella struttura in cui insegno, un centro di Alta Formazione professionale, noi insegnanti di danza classica abbiamo esami tecnici da preparare mentre chi si occupa delle discipline che riguardano la contemporaneità della danza ha il compito di creare delle opere che poi vengono presentate in vari contesti. Anche noi abbiamo spesso la sensazione che la preparazione di questi appuntamenti tolga un po’ di tempo allo studio e c’è da dire che i nostri studenti trascorrono in sala danza tutto il giorno dal mattino fino al pomeriggio inoltrato. Non solo, sono anche danzatori che si avviano alla professione e che quindi assimilano le sequenze con una certa rapidità ma data l’enorme mole di materiale da gestire richiedono comunque di tantissimo lavoro per mettere a punto le coreografie fino a renderle adatte ad una esibizione pubblica.

Ogni anno ridimensiono l’ambizione di inserire alcuni passi o alcune combinazioni nel programma d’esame  quando mi rendo conto che sarebbe rischioso, valutando quel gruppo non ancora pronto per quel tipo di proposta. Si tratta di difficoltà tecniche, abilità musicali ed espressive su cui però mi piacerebbe lavorare con loro, ma quando l’esame incombe devo dargli priorità e valorizzare la loro danza anziché ostacolare il fluido affiorare delle loro qualità. Il tentativo di mediazione che cerco di realizzare ogni anno è quindi quello di costruire una lezione che sia al di sopra delle loro capacità del momento, creando opportunità per imparare nuove cose, per poi aggiustare il tiro in prossimità dell’esame rendendo il materiale fruibile da un osservatore esterno. Questo perché la cosa più importante per me è continuare sempre ad imparare e progredire nella pratica e nella conoscenza del balletto. Preferisco che all’esame emerga qualche incertezza nel tentativo di padroneggiare nuove abilità piuttosto che farli stare comodi in un programma al di sotto del loro potenziale. Sono scelte che ogni insegnante fa, magari non condivisibili da tutti, questo dipende sempre da quali sono gli obiettivi per ognuno di noi.

Sarebbe bello se il saggio di danza venisse vissuto con semplicità e autenticità, senza troppi effetti speciali, scene, proiezioni, costumi esagerati, un po’ come i saggi di pianoforte in cui gli studenti si esibiscono suonando il brano su cui hanno lavorato con i propri maestri. Chiaramente si tratta di persone che stanno imparando e quindi ci saranno errori, distrazioni, inciampi di varia natura ma sappiamo benissimo che non siamo davanti ad una compagnia professionale o al concerto di Beyoncé e questi piccoli imprevisti sono, dopotutto, accadimenti necessari e utilissimi per progredire.

Mi pare, ma forse è solo una mia impressione, che sul saggio di fine anno gravino troppe aspettative, troppi significati, troppe sfide, troppi desideri e questo in qualche modo rischia di sovrastare il significato più autentico di questo appuntamento, fino a non riuscire più a vederlo, così sommerso da tutto ciò che lo ricopre.

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