Mi scrivono tanti maestri di danza per chiedermi di parlare della relazione insegnante-allievo nel caso dei bambini, che prevede inevitabilmente un terzo elemento, ossia il genitore. Sebbene indispensabile e preziosissimo, non sempre il genitore è in grado di stare entro i confini del proprio ruolo e questo, almeno da ciò che evinco dai racconti che ricevo, può essere molto stressante per l’insegnante di danza che ha già da portare molta attenzione al proprio lavoro in sala con gli allievi. Anche la relazione con i genitori è tuttavia parte integrante del lavoro dell’insegnante di danza, ma si spera sempre possa non essere fonte di stress e che i genitori possano rappresentare, anzi, un aiuto per lo svolgimento delle lezioni, individuando con chiarezza il confine tra quello che compete loro e ciò che invece compete all’insegnante.
La figura del formatore, in generale, specie per chi opera nell’ambito dell’Istruzione Pubblica, non sta vivendo un momento di grande popolarità, viene spesso screditata, tacciata di incapacità, insensibilità, inettitudine. Sento spesso dire che i professori sono funzionari pubblici che si guadagnano lo stipendio senza fare niente, che hanno lunghe vacanze, che prendono di mira gli studenti perché sfogano così le loro frustrazioni personali e tante altre affermazioni che poi alla fine non trovano fatti a corroborarle. Non sto qui a dire che tutti i professori e gli insegnanti scolastici siano un esempio di eccellenza, ma non è possibile neanche che nella carriera scolastica gli studenti non incontrino mai qualcuno che ci metta il cuore, nel proprio lavoro, come sembrerebbe dai commenti di molti genitori che conosco. Davanti a questa situazione conflittuale l’unico pensiero che si mostra chiaramente nella mia mente è che invece di creare separazione tra famiglia e scuola bisognerebbe puntare a promuovere una reciproca collaborazione e mutuo sostegno. L’autorevolezza del formatore è stata messa profondamente in crisi anche da una sempre più dilagante tendenza a sentirsi tutti insegnanti che pontificano da dietro una cattedra, tutti esperti di tutto e se questo avviene nei confronti di persone (professori scolastici) che per essere lì hanno superato esami, abilitazioni e macinato nomine e supplenze, figurarsi quando ci si trova davanti qualcuno che fa un mestiere che neanche viene percepito tale (nonostante servano ugualmente moltissimi anni di studio e ricerca) come l’insegnamento della danza.
Premetto che, come in molti sanno, non insegno a bambini ma solo a persone adulte in formazioni professionali, quindi la mia relazione con gli allievi è esclusiva, i genitori li vedo una volta all’anno, quando ci sono gli esami, anche se molti di loro non li conosco neanche. Quindi l’articolo di oggi si basa sui messaggi dei colleghi che mi scrivono per raccontarmi quanto sia difficile gestire non tanto i piccolini, lavoro per cui sono ampiamente formati e competenti, ma proprio la relazione con i genitori, definendo ruoli e confini.
La danza per i piccoli è diventata, nella maggior parte dei contesti, un’attività ludica e di intrattenimento, un allenamento fisico con scopo performativo (il saggio) e con una forte componente competitiva (quell’agonismo tanto caro allo sport ma che poco ci azzecca con la danza), perdendo invece il suo significato più profondo, atavico, di pratica olistica in cui il bambino ha la possibilità di esplorare il proprio Sé, le proprie emozioni, imparando ad esprimerle anche senza verbalizzazione, utilizzando il gesto. Ci sono sempre più genitori interessati a offrire ai propri figli questo tipo di esperienza, per fortuna, attraverso proposte formative che guardano alle pratiche somatiche, improvvisazione, teatro, psicomotricità e tante bellissime tecniche che prevedono l’ausilio di oggetti, colori, musica, spazio, ritmo, immaginazione, visualizzazione, per donare ai bambini l’esperienza del corpo che danza, lontano da esercizi per stendere i piedini o mani appoggiate alla sbarra.
La danza non è una pratica ludica e di intrattenimento, ma un importante momento di ascolto e condivisione in cui i risultati non si vedono da quanti minuti dura il balletto del saggio o da che età metteranno le punte. Non da quanto alzano le gambe o da quante esibizioni faranno durante l’anno. La danza dovrebbe essere occasione di esplorazione, emancipazione, libertà di espressione lontana da ogni concetto di bello/brutto (oserei dire persino anche lontana da giusto/sbagliato) e soprattutto un momento in cui i bambini hanno la possibilità di accedere alla propria creatività, che alla loro età è un oceano infinito dal potenziale enorme. Pretendere che dei bambini al di sotto dei sei anni seguano una routine di allenamento con esercizi da ripetere, applicando tecniche che mirano alla sterile esecuzione delle forme, vuol dire togliergli l’opportunità di imparare ad esprimere sé stessi in modo libero e spontaneo, attraverso un gioco intelligente e formativo con cui ogni abile conduttore sa catturarli e portarli con sé nel luogo più bello del mondo: quello dell’Arte.
Dimostrare fiducia nei confronti degli insegnanti vuol dire anche riconoscere di non poter sapere tutto, avere il coraggio di chiedere quando non si comprende, ascoltare attentamente le risposte alle domande perché a volte è proprio ciò che non si comprende che viene più aspramente criticato (la vecchia storia della volpe e l’uva cos’altro può significare se non questo?). Attraverso la buona pratica del dialogo e della reciproca comprensione è possibile anche sviluppare una serie di competenze che aiuteranno i genitori a riconoscere un bravo formatore rispetto a chi non lo è, nonché essere in grado di vedere i risultati del suo lavoro nel corpo e nelle strategie di vita dei propri figli.