Qualche giorno fa mi è capitata tra le mani questa frase: “il vero maestro ti mostra la tua grandezza, non la sua”. Me la sono rigirata tra le pieghe della mente per qualche giorno ripensando a tutte le volte in cui ho tradito questo sacro principio e mi sono resa conto che per troppo tempo il mio ego, avido di conferme e appagamento si è messo in mezzo nella relazione tra me e i miei studenti, specialmente nei primi anni in cui ho svolto questo lavoro così difficile da comprendere.
Gli schemi mentali e le strategie di sopravvivenza ereditate da anni di lavoro sul palcoscenico possono rendere arduo operare un cambiamento nel posizionamento della propria presenza quando invece ci si pone nell’offrire un servizio all’altro. Si rimane intrappolati nel meccanismo di ricompensa degli applausi a fine spettacolo, con quel bagno chimico che crea dipendenza dal riconoscimento e grande frustrazione quando questo non arriva.
In qualità di insegnanti siamo chiamati ad includere nel nostro campo dell’attenzione tutte le individualità che danno vita al gruppo presente in quel momento, sostenendone l’apprendimento senza aspettarsi nulla in cambio che sia un miglioramento, fiducia, riconoscimento, gratitudine. Nulla di tutto questo è dovuto nella relazione allievo-insegnante e se risentiamo della mancanza di un simile ritorno è solo il nostro ego che parla, quello che ha bisogno della ricompensa.
Nessuno di noi è immune da un simile errore di valutazione, quando ci impegnano al massimo e riceviamo un’accoglienza tiepida o nulla, da parte delle persone a cui dedichiamo tanta attenzione, è impossibile non accusare il colpo, ma se siamo consapevoli di aver dato il meglio in nostro potere, possiamo attendere che queste emozioni, una volta presentate, si dissolvano o si trasformino in nuova energia da usare per trovare un’altra chiave da provare.
Lo yoga mi ha insegnato moltissimo anche su questo aspetto dell’esistenza. Nella Bhagavad Gita si parla di Karma Yoga, la Via dell’Azione, in cui si cerca la trascendenza nell’azione stessa, compiuta con distacco, perseguendo il proprio progetto originario senza provare desiderio o avversione verso i frutti che seguiranno a queste azioni, agendo in accettazione del proprio ruolo e per un bene più grande di quello individuale. Questa è l’attitudine che ogni maestro dovrebbe applicare per poter trasmettere gli insegnamenti ed essere a sua volta un esempio di correttezza e imparzialità.
Siamo in un ottimo momento dell’anno per osservarsi da questo punto di vista, per studiare sé stessi e vedere su quali strategie stiamo basando il nostro operato: tempo di esami, saggi, esibizioni. Il saggio è una prova dimostrativa delle capacità che gli allievi hanno acquisito in un anno di lavoro, sia dal punto di vista tecnico che interpretativo. È uno spazio che riguarda soltanto loro, in cui ad ognuno dovrebbe essere data la possibilità di misurarsi con la sfida della scena, nella modalità più adatta alla sua personalità e al livello tecnico raggiunto. Non dovrebbe essere il terreno in cui l’insegnante o il responsabile della scuola sente di doversi mettere in mostra. Quando la spettacolarità del saggio diventa più importante dell’esperienza che ogni allievo ha la possibilità di fare in questa occasione, secondo me qualcosa nel delicato equilibrio della trasmissione è andata persa.
Ci sono molti modi in cui questa attitudine si manifesta, ad esempio quando le coreografie sono tecnicamente al di sopra del livello degli allievi, come a volte accade per la danza classica, dove allieve giovanissime, malferme sulle punte, eseguono variazioni troppo difficili per loro. Oppure l’attitudine di mettere davanti sempre le stesse persone, attuando di fatto delle disuguaglianze all’interno del gruppo. Ogni insegnante vede chiaramente chi ha più talento e doti per la danza, persone che apprendono con maggior facilità e velocità, inutile negarlo. Il nostro compito, però, è aiutare, coinvolgere, dare possibilità e includere tutti nella ricerca di un miglioramento.
Qualche tempo fa ho ascoltato una ballerina famosa dire in televisione che, fin da quando era piccola, voleva stare sempre e solo davanti nei saggi di danza, prendendosi (senza troppi complimenti) quel posto che, nel suo sentire, le spettava di diritto. Può capitare di avere personalità impegnative nel gruppo, che tendono ad imporsi e schiacciare gli altri, credo che il ruolo dell’insegnante in questi casi sia proprio quello di contenere questa tendenza e dare spazio anche e soprattutto a quelli più insicuri, timidi, persino tecnicamente carenti, perché il saggio è un’occasione per tutti e non solo per quelli più bravi. Le persone più remissive sono proprio quelle che evidentemente attraverso la danza cercano un modo per emergere, per imporsi nel mondo. Il più bel regalo che possiamo fare, in qualità di insegnanti, è proprio quello vederli nella loro autenticità, credere in loro e dimostrarlo dandogli fiducia e responsabilità, non importa se poi al saggio per l’emozione sbaglieranno o mostreranno incertezza, il nostro compito è sostenerli nel cammino che hanno scelto. Allo stesso modo faremo un grande dono aiutando le persone più esuberanti, con personalità esondanti, a ritrovare i propri confini e imparare a condividere la gioia di danzare anche lasciando spazio agli altri. Certo, chi raggiunge risultati ottimali è meritevole di avere uno spazio in cui mostrare le proprie abilità ed è giusto che venga concesso, ma bisogna chiedersi se lasciare sempre le stesse persone in ultima fila non sia una strategia (consapevole o meno) per mettere in mostra solo il meglio e non compromettere la nostra reputazione. In questo caso direi che è bene ricordare che gli allievi non sono la nostra vetrina ma persone che ci hanno scelto per affrontare u percorso di trasformazione.
Da questo punto di vista la mia prima maestra era impeccabile, ogni allievo nel saggio aveva un “proprio momento” nei balletti, mentre gli altri facevano da corpo di ballo. A volte andavamo al centro in due, in tre o anche di più, ma ognuno aveva quell’occasione speciale per prendersi la scena e dare il meglio, scandita in un numero di battute più o meno simile per tutti. Probabilmente faceva così per accontentare i tanti genitori in platea che avevano voglia di vedere i propri figli ballare, ma per noi era bello sentire che la maestra non mostrava particolari preferenze e dava ugualmente spazio a tutti. La coreografia era adatta alla capacità tecnico-espressiva raggiunta, nessuno si trovava in difficoltà e devo dire che a ripensarci con l’esperienza di oggi, questa maestra era proprio brava a creare danze, ogni anno si dedicava ad una grande ricerca musicale e coreografica, che faceva bene anche alla nostra cultura personale, dato che poi andavamo a cercare le opere musicali da cui quel brano era tratto. Gli allievi più grandi e meritevoli potevano avere delle variazioni da solisti al saggio, oltre al balletto di gruppo, tutto era estremamente asciutto, senza scenografia, senza trama, un vero e proprio saggio dimostrativo. Ancora oggi questi sono i saggi che preferisco.
Viviamo in un modello socio-culturale basato sulla competizione e sul mito dell’eroe che sbaraglia gli avversari, la danza potrebbe essere in questo contesto portatrice di altri valori, almeno nelle realtà amatoriali, avulse dalle dinamiche professionali, in cui si possa cogliere il meglio da questa meravigliosa arte, lasciando le miserie dell’esistenza fuori dalla porta.