Lia Courrier: “Il virus che uccide la danza” – seconda parte

di Lia Courrier
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Nel giro di un paio di giorni, sono stata letteralmente bombardata da petizioni da firmare a sostegno degli insegnanti di danza, caricate sulle più note piattaforme dedicate alle petizioni on line. Quando sono poi andata a leggere con più attenzione, ho notato che nella maggior parte dei casi si trattava di un testo simile, ricopiato e incollato su più raccolte firme diverse.  Non ho ben capito l’utilità di fare più petizioni, disperdendo in tal modo le sottoscrizioni, quando forse sarebbe stato molto meglio farne una nazionale, unica, in cui convogliare tutti. Personalmente nutro uno scetticismo atavico nei confronti di questo tipo di iniziative on line, perché si tratta di un’azione per cui non bisogna spendere troppa energia: sei a casa tua, ti ritrovi un documento già scritto da qualcun altro, che magari leggi sommariamente e senza troppa attenzione, metti una firmata, lasci il tuo indirizzo e-mail, e ti senti a posto con la coscienza, con la sensazione di aver fatto qualcosa, con la pretesa di essere ascoltato. Il minimo sforzo, ma consentitemi, con il minimo risultato.

La cosa che mi ha sorpreso di più di questo documento, però, è contenuto: ancora una volta ciò che emerge con maggior prepotenza è la superficialità con cui questa petizione è stata formulata, la mancanza di conoscenze per poter davvero aspirare ad essere ascoltati dalle sedi istituzionali, che -si sa – parlano un linguaggio specifico e tecnico che bisogna conoscere, altrimenti si è solo dei parvenu, non si viene presi sul serio.

Riporto lo stralcio di una delle petizioni che mi sono arrivate, correggendo dei refusi presenti nel testo originale, che evidentemente non è stato riletto prima di pubblicarlo: “chiediamo una sovvenzione di un minimo mensile per tutti i detentori di partita IVA e non che lavorano in questo settore e per i quali questo rappresenti l’unica fonte di reddito dimostrato (istruttori, insegnanti, maestri)”. Rileggete attentamente e poi, alla luce di quanto scritto nella prima parte di questo articolo, ditemi se è possibile pensare di poter diventare interlocutori con le istituzioni, presentando un  documento simile. Ma andiamo per ordine.

Un ‘minimo’ mensile cosa vuol dire? Una percentuale sul guadagno dell’ultimo mese? Una cifra fissa? Calcolata in che modo? Non è chiaro. Qualcuno ha quantificato con la cifra di 500 euro mensili per ogni insegnante, una cosa che manderebbe in bancarotta il paese praticamente. Si vogliono mettere insieme i detentori di partita Iva e quelli che non ce l’hanno, come se dal punto di vista fiscale fossero la stessa cosa. Infine, la parte che dimostra davvero la poca chiarezza diffusa nel settore: l’unica fonte di reddito dimostrato. Nel caso di un collaboratore delle ASD, sarebbe un’autodenuncia di illecito, dal momento che quel contratto, per legge, dovrebbe essere utilizzato solo per un secondo lavoro. In pratica i collaboratori con questo tipo di contratto non dovrebbero avere nessun interesse a sottoscrivere una petizione che li taglia fuori.
Ovviamente, però, tutti si sono affrettati a firmare, perché nel momento dell’emergenza, presi dalla crisi, ci si agita annaspando alla ricerca di un approdo di qualche tipo. Quante volte ho assistito, e partecipato, a simili dispendi di energie!

Ecco, potete immaginare il perché io non abbia firmato nessuna di queste petizioni.

Quello che Aidaf ha fatto in 20 anni di attività, all’interno di AGIS – Federvivo dal 1999, con gli obiettivi sopra esposti, è stato ricevere l’attenzione del Ministero del Beni Culturali, portando avanti una istanza formulata in anni di osservazione del settore, individuando criticità e possibili strategie per risolvere le problematiche, con il sostegno di avvocati, giuristi e, ovviamente, anche con il nostro apporto, in qualità di insegnanti di danza. Essere ascoltati in queste sedi è un processo lungo, al quale Aidaf non ha mai smesso di lavorare, ma bisogna crederci, bisogna esserci, con costanza, mettendoci il proprio tempo, presenza e faccia, avendo come obiettivo un bene comune e non individuale, e per fare questo non basta mica una firma sul web. Personalmente sono dentro a questa avventura solo da due anni: dopo la campagna informativa che il direttivo ha fatto in varie città d’Italia, nell’associazione culturale di cui faccio parte abbiamo deliberato questa decisione all’unanimità, perché ci siamo resi conto che era importante dare il nostro sostegno. A volte abbiamo fatto importanti passi avanti, altre siamo tornati indietro, ma non si è mai mollato. Purtroppo, però, la maggior parte delle persone che ho incontrato da quando appoggio questa causa, si sono sempre dimostrate molto scettiche riguardo il cambiamento rivoluzionario che Aidaf propone, se non proprio disfattiste, perché chiaramente non si tratta di un processo indolore.

Alla luce di questo come si può pensare che una petizione scritta in fretta e furia e pubblicata sul web possa fare meglio di 20 anni a stretto contatto con le istituzioni? Davvero vogliamo ancora correre dietro agli Enti Sportivi che hanno portato la nostra categoria allo sfacelo?

Il virus che uccide la danza non è il Covid-19 ma l’ignoranza, l’egocentrismo, la pratica autolesionista di scegliere di stare fuori dal tessuto sociale, di essere degli outsider che però pretendono privilegi, senza capire neanche a quale prezzo questi dovranno essere pagati.

Ecco quanto è duro il muro contro cui ci stiamo scontrando in questi giorni.

Forse sarebbe il caso di smetterla di recriminare come se il nostro settore fosse l’unico a risentire di questa crisi, come se la lezione di danza fosse un bene primario e il mondo non potesse andare avanti senza di noi, perché non è così. Questo non vuol dire che la danza non sia importante, o che noi non lo siamo, perché non è questo il punto, ma ridimensioniamo il nostro sentire in relazione al contesto, siamo realisti. Chiedere soldi o posticipi di pagamento non darà dignità alla professione, anche qualora si riuscisse ad ottenerli, a noi serve avere diritti sempre, anche quando questa emergenza sarà alle spalle. Per vedere questo momento come una opportunità, dovremmo cominciare a riflettere su come poter diventare dei soggetti socialmente attivi e presenti, che svolgono dei mestieri riconosciuti, e non degli hobby, richiedendo un riconoscimento dal Ministero attraverso titoli. Possiamo utilizzare questa occasione per capire che è molto meglio essere parte della società, non solo perché siamo promotori della bellezza di un’arte eterna, con tutti i valori che porta in sé, ma anche in quanto cittadini inseriti nell’apparato previdenziale, esattamente come qualsiasi altro lavoratore.

Allora sì che potremo chiedere (e non pretendere) un aiuto dallo Stato.

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