Sul treno che mi riporta a Milano, scrivo.
Lo faccio proprio con la penna e un foglio di quaderno, come si faceva una volta.
Torno da una speciale celebrazione della Giornata Internazionale della Danza tenutasi ad Urbino, dove abbiamo festeggiato a dovere questa sublime arte che tanto amiamo.
Sono stata invitata a parlarne in un contesto meravigliosamente accogliente e aperto, in cui siamo riusciti a verbalizzare la nostra relazione e le esperienze vissute nella danza, nel miglior modo possibile: onesto, impersonale e appassionato.
Ogni anno in questa giornata vengono spese bellissime parole per l’arte del movimento, espressi concetti toccanti ed emozionanti, perché in fondo la danza esiste in ognuno di noi, nel nostro nucleo antico, nel ritmo del respiro, nel pulsare del cuore, nell’incedere dei nostri passi su questa Terra. Tutti noi siamo danzatori che si muovono leggeri sulle onde del samsara, in fondo consapevoli che resistere al movimento comporta molta più fatica e sofferenza che non assecondarlo e lasciarsi andare a questa danza.
Faccio mia una frase di Karima Mansour, coreografa egiziana che è stata scelta per comporre il consueto messaggio all’umanità: “La danza è dove la cultura è condivisa e i confini cadono nello spazio dell’inclusione e dell’unità, attraverso il linguaggio muto dell’universalità”.
Parlare di danza ancora emoziona, e mi emoziona, fino alla commozione. Sentire l’energia del corpo in movimento, quando questo si espone nella sua purezza, avulso da qualsiasi desiderio di apparire, è una potenza che ancora mi colpisce alle viscere. A tradimento, perché dopo tutti questi anni insieme a lei, ci si aspetterebbe una qualche forma di reciproca abitudine, e invece ancora riesce a oltrepassare chirurgicamente ogni corazza, ogni sedimento protettivo, infilzando la carne tenera, quella più vulnerabile alla marea dei sentimenti, che straboccano in stille dai condotti lacrimali, senza che neanche si abbia il tempo di capire che sta per accadere.
Tutto ciò a volte è persino troppo intenso e questo corpo, nella sua finitezza di spazio e tempo, si rivela essere infinito, capace di espandersi oltre i suoi stessi confini per guardare verso un orizzonte lontano, che però altro non è che un luogo posto nelle profondità abissali del nostro essere.
Per fortuna ci pensa la realtà a riportarmi con i piedi per terra dalle escursioni pindariche che amo concedermi nel tempo libero: questa mattina, proprio mentre mi preparavo per andare in stazione, leggo un articolo nel quale si parla della situazione del corpo di ballo dell’Arena di Verona, ed è subito scoramento e amarezza.
Ripiombo giù. Si ritorna nella cruda realtà, che vede la danza come un prezioso animale in via d’estinzione, che tutti adorano ma di cui poi alla fine nessuno vuole davvero prendersi cura. Che nessuno vuole difendere con delle azioni concrete. Tante belle parole e rapimento da parte di tanti, ma poi alla fine tutto ci ricorda che in pratica non esistiamo neanche.
La storia di questa compagnia è un archetipo dello stile italico più genuino, quello che prevede di spostare il problema anziché cercare di risolverlo. Un accanimento terapeutico che spesso non porta che ad una dispersione di tempo, energia e denaro. Nonostante le mille promesse, urlate dal sindaco Spoarina e dalla sovrintendente Gasdia, quest’anno la produzione del balletto – una ferita ancora aperta della Fondazione Arena di Verona – sarà affidata alla Società Arena di Verona, che in questi anni ha fatto parlare di sé per la totale opacità riguardo bilanci e le relazioni economiche con la Fondazione. Questa società era stata inizialmente creata per gestire gli eventi extra stagionali, come ad esempio lo spettacolo di balletto “Roberto Bolle & friends”, ma adesso pare che la Fondazione voglia totalmente lavarsi le mani riguardo al corpo di ballo, confermando la politica di esclusione che ha precedentemente manifestato con il tanto criticato licenziamento dell’intero organico, una mossa osteggiata persino dalla sovrintendente, che però pare non avere i poteri per fare qualcosa di concreto.
I sindacati fanno sapere inoltre che le sale prove del corpo di ballo saranno utilizzate per ospitare stages di danza organizzati da ‘Verona Accademia per l’Opera’, istituzione di cui l’attuale sovrintendente era direttrice fino alla sua nomina alla Fondazione, quindi: spazi di pertinenza della Fondazione che ricordiamo, riceve milioni di euro di finanziamento pubblico, messi a disposizione di un’attività realizzata da un soggetto privato.
Ecco.
Che dire? Cosa poter aggiungere che non risuoni come una ovvietà?
La morale di questa favola è, ancora una volta, al di là dei questa particolare vicenda, che non tutti i problemi che attualmente affliggono il settore sono risolvibili con il denaro. Se non esiste trasparenza e correttezza nella redistribuzione delle risorse e se non c’è purezza di intenti in chi copre ruoli direzionali, non ci può essere neanche la buonafede dei lavoratori, che si sentono presi in giro.
Serve progettualità e una volontà seria di stabilire un dialogo con i sindacati e con i ballerini, per ripristinare lo stato dei corpi di ballo in Italia. Le energie devono convogliare da più parti per trovare una formula condivisa, altrimenti possiamo goderci la danza che ci rimane prima che svanisca dall’offerta culturale di questo Paese.
Ribadisco ancora il mio punto di vista, già espresso in passato proprio su queste pagine: al posto di chiedere più sostegno economico o assunzioni a tempo indeterminato, sarebbe molto più utile chiedere un piano di ripristino, anzi, ancora meglio sarebbe portare progetti e produrre contenuti da sottoporre ad un tavolo di discussione. Sono certa che le idee dal basso non manchino, quindi forza, è il momento di tirarle fuori e smettere di lamentarsi.
Riprendiamoci il nostro posto.
Come diceva qualcuno: libertà è partecipazione.