Lia Courrier: “La danza dovrebbe unire e non dividere”

di Lia Courrier
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Ricordo ancora con lucidità le emozioni del mio primo saggio di danza.
Per anni avevo desiderato studiare balletto e ora che finalmente era giunto il momento di portare in scena i frutti di quel primo periodo di impegno non stavo più nella pelle dalla gioia.

Quel luogo, il palcoscenico, mi sembrava un’imperdibile occasione per veleggiare al di sopra di ogni discriminazione sociale, di genere, etnica, culturale, religiosa. Su quelle assi di legno avevo la sensazione che tutti potevamo essere ciò che volevamo, liberi, insieme, per creare una zona franca dalle miserie quotidiane, una festa per l’anima in cui fosse possibile godere dell’aspetto giocoso dell’esistenza, vestendo i panni di qualcun altro ma allo stesso tempo rivelando la parte più intima di sé.

Sono stata anche una studentessa d’arte grafica, oltre che di danza, ho creduto per molto tempo che l’espressione creativa degli esseri umani, specialmente i linguaggi non verbali come la musica, la danza e la pittura, fossero uno straordinario strumento di condivisione, portatori di un messaggio di pace e uguaglianza.

Quanto mi sbagliavo.

I teatri, nella realtà che ho avuto modo di osservare negli anni in cui sono stata una lavoratrice dello spettacolo dal vivo, rappresentano una società in miniatura estremamente gerarchica in cui ognuno occupa uno spazio ben delimitato quasi come nel sistema delle caste indiane. Questa rigida struttura è tuttavia funzionale e necessaria per la finalità e gli obiettivi del lavoro che si svolge in questi luoghi: quanto più grande è il teatro tanto più euclidea sarà la gerarchia, altrimenti sarebbe il caos. Riconosco quindi l’utilità e la preziosità di questo sistema, nonostante la mia personalità poco vi si adatti.

Poi c’è la questione umana, che è tutta un’altra storia: gli artisti della scena non sono personalità semplici con cui interagire, presentano sovente un ego smisurato e un profilo narcisistico. Non nego di aver vissuto da narciso anch’io quando lavoravo in teatro, probabilmente nel tentativo di trovare una mia dimensione in quell’ambiente per me ostile e a volte tossico, perché se mi guardo oggi davvero non mi riconosco in questo schema mentale e non so per quale motivo mi sia forzata ad una simile deformazione della persona che credo di essere, una scelta non consapevole che mi ha portato tanta sofferenza e che ha richiesto del tempo per ritrovarmi.

Non a caso ho scelto di insegnare: lavorare “dietro le quinte” nell’atto altruistico di trasmettere qualcosa agli studenti, sostenere i loro successi attraverso la condivisione di tecniche e saperi, mi si addice certamente di più.

Anche qui, però, mi scontro spesso con l’ego dei colleghi che si confonde e scambia l’umiltà per ignoranza e la modestia per mancanza di professionalità. Scrivere su questo bellissimo giornale di danza ovviamente mi espone al giudizio, lo sapevo benissimo quando anni fa il nostro direttore mi ha chiesto di entrare nella redazione. Ogni articolo che porta la mia firma è stato scritto con intenzione chiara, a seguito di documentazioni e ricerche, con enorme senso di responsabilità nei confronti di voi lettori e ovviamente verso la nostra amata danza.  Ciò che so della danza è quello che i miei maestri mi hanno trasmesso, tutti ballerini dalle brillanti carriere nei teatri più importanti d’Europa se non del mondo e non posso non menzionare tutti i miei insegnanti di pratiche nell’ambito del tocco terapeutico che tanto hanno dato al mio lavoro. Nutro molto rispetto e gratitudine per ciò che mi hanno insegnato e che ho compreso non solo nella mente ma anche con il corpo. Questo non vuol dire che sia in possesso di qualche verità assoluta da enunciare, credo di essere più interessata al processo di ricerca della verità che non alla verità stessa e spesso dico agli allievi di non credere ciecamente a tutto quello che dico, di non prenderlo come oro colato ma di provare prima sulla propria pelle se si tratta di una informazione che effettivamente risuona in loro. Vorrei però tranquillizzare gli animi di tutti liberandoci da questo enorme peso: nessuno può dirsi detentore di verità assoluta.

Possiamo discutere all’infinito su come si chiama un passo, se le mani in prima posizione sono all’altezza dell’ombelico o del diaframma, se sono meglio le pirouettes en dedans dalla seconda o dirette, a me queste discussioni da nerd del balletto piacciono anche ma non è lì il cuore pulsante del nostro lavoro e inoltre la stratificazione di interventi che nel corso dei secoli e nelle varie parti del mondo si è operata sul syllabus del balletto rende vano il tentativo di giungere ad una conclusione univoca, nella maggior parte dei casi.

Molti insegnanti mi hanno donato principi o tecniche validissime ma che sul mio corpo non funzionavano, con cui la mia mente o il mio cuore non risuonavano, non le ho utilizzate ma questo non vuol dire che quelle indicazioni fossero sbagliate. Questo per dire che sarebbe bello se tra colleghi ci si rispettasse un po’ di più, senza pensare sempre che il proprio interlocutore sia un cretino o una persona che per avere diritto di parola debba srotolare il proprio curriculum per dimostrare la propria credibilità. Ognuno di noi ha la propria visione, il proprio vocabolario, la propria attitudine e modalità nel trasmettere quest’arte ai propri studenti e personalmente ho sempre adorato assistere alle lezioni dei colleghi (cosa che faccio abitualmente ogni volta che posso) perché questo arricchisce la mia visione di nuovi punti di vista, di spunti, di aspetti da riportare alla luce. Dovremmo secondo me imparare a considerare il lavoro degli altri come un interessante oggetto di studio, anche e soprattutto quando è lontano dalla nostra modalità, per condividere, costruire insieme un ambiente più sano anche per dare il buon esempio ai nostri studenti. Parlare male dei colleghi o screditarli davanti agli studenti è un buon esempio? Io non credo.

Il Mahatma Gandhi nella sua autobiografia scrive:

“a mio parere sarebbe stato ozioso insegnare ai miei allievi a dire la verità se io fossi stato un bugiardo. Un maestro vile non può riuscire a creare discepoli coraggiosi e uno che non sappia che cosa voglia dire imporsi alle rinunce non può farne comprendere il valore ai propri allievi. Io perciò mi convinsi che dovevo essere un esempio vivente per i ragazzi e le ragazze che vivevano con me. Essi divennero i miei maestri e io imparai ad essere buono e a vivere rettamente, se non altro per il loro bene”.

Esiste poi anche una sempre più diffusa ed evidente difficoltà a comprendere un testo scritto e certamente il mio stile di scrittura, che pecca di proprietà di sintesi (sono nata in una città barocca, non è colpa mia) può rendere la comprensione di ciò che scrivo ancora più complessa. Per questo vi chiedo di essere clementi, a mia discolpa posso solo dire di avere uno spazio limitato e a volte concludere esaurientemente un discorso in mille parole circa rappresenta una bella sfida. Mi impegnerò sempre di più per migliorare la mia capacità di espressione nella forma letterale, rimango aperta al confronto, ad una discussione educata e che abbia come obiettivo un reciproco arricchimento.

Siamo qui chiamati a dare il nostro contributo per alimentare questo fiume chiamato danza, sono ben accetti tutti, sia quelli che nuotano nella scia creata da quelli che sono venuti prima  che coloro che pensano fuori dagli schemi.

La danza dovrebbe unire e non dividere.

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