Per oggi avevo in serbo tutt’altro argomento ma il chiacchiericcio sorto intorno ad un documentario Rai sulla vita di una nota ballerina italiana e alle sue esternazioni, ha fatto risalire sulla superficie della mia mente un aspetto che mi sta molto a cuore, di cui ha splendidamente scritto anche la mia collega Susanna proprio qualche giorno fa su DHN, che ritorna su periodicamente come quei peperoni ripieni che proprio non si riescono a digerire.
Parliamo della normalizzazione di certi comportamenti abusanti nel mondo della danza, considerati inaccettabili in qualsiasi altro territorio formativo ma qui parte dell’epica vissuta o immaginata che vede la danza come un percorso esclusivo degli eroi, di coloro che sacrificano ogni valore personale e ogni etica pur di raggiungere l’obiettivo (e sono considerati dei fighi per questo).
Personalmente ho cominciato a rendermi conto di quanto tossico fosse l’ambiente della danza (considerando il campo collettivo e non le singole realtà, ovviamente) solo quando me ne sono tirata fuori per realizzare un cammino di consapevolezza e di ritorno a me stessa. Ho amato così tanto la danza da dedicarmi allo studio con tale ardore e devozione da non essermi resa conto di come quella rete mi avesse intrappolata. Le persone attorno a me, che non facevano parte dell’ambiente, mi chiedevano come facessi a sopportare ciò che mi veniva detto e la modalità di comunicazione, ma onestamente ero così contenta di ballare da non percepire neanche il dolore di quelle ferite che invece loro vedevano in me molto chiaramente. Minimizzavo, rispondevo con la frase simbolo di questo programma mentale così diffuso: “la danza è sacrificio, se vuoi raggiungere un certo livello è così”.
L’alta competitività a cui i giovani studenti di danza sono portati, la proverbiale severità degli insegnanti, spesso molto carenti di intelligenza emotiva (probabilmente anche a causa di ferite che loro stessi portano dentro) permettono a questo sistema di essere drammaticamente accettato ancora oggi, nonostante i saperi provenienti dagli ambiti più disparati di osservazione dello psico-organismo.
Nei sistemi scolastici più evoluti si sa bene quanto la collaborazione sia più produttiva della competizione, sotto molti punti di vista che vanno dalla produttività alla consapevolezza individuale, dal gradiente di felicità all’autostima. Imparare a nutrire gioia per i successi dell’altro anziché sviluppare sentimenti tossici come l’invidia è molto importante ma richiede un processo di consapevolezza e capacità di auto osservazione. Qualcuno la chiama “sana” invidia, dal mio punto di vista invece non vedo niente di sano in questo sentimento, se non che è una delle nuance dell’umana emotività e ha diritto di esistere. Con i giusti strumenti possiamo eliminare questo sentimento dalla nostra esistenza o trasformarlo in energia positiva e creatrice anziché distruttiva (la prima vittima della corrosiva invidia è proprio chi la prova).
Sono felice di essere Lia Courrier e non qualcun altro, perché mi trovo esattamente al mio posto, nel luogo e nel tempo a cui appartengo, con queste idee, questi valori e con la mia storia che, come quella di chiunque altro, vive una naturale alternanza di pace e tempesta, esaltazione e tristezza. Come potrei desiderare di essere come qualcun altro? Sarebbe un cammino destinato ad una immensa infelicità e non permetterebbe mai al mio fiore interiore di dischiudersi e liberare il suo profumo. La frustrazione vera non è quella che si prova quando non riesci a diventare “brava come” o “migliore di” ma quando non ti concedi il privilegio di crescere come la versione più autentica di te stessa, perché se siamo qui al mondo è proprio per sbocciare.
Non sempre l’amore per la danza è presente insieme al talento artistico o ad un corpo che corrisponda al modello imposto, questo non vuol dire che non si possa trarre piacere dal danzare (e forse anche di raggiungere risultati significativi perché l’amore è la benzina e non la rabbia) e soprattutto questo non autorizza nessuno, né l’insegnante e tantomeno i compagni e le compagne di corso, a vessare, umiliare o bullizzare, comportamenti molto gravi, da anni oggetto di studio in ogni parte del mondo per comprendere come prevenirli o evitarli.
Il comportamento abusante è già esecrabile quando attuato dai coetanei ma lo è doppiamente quando l’adulto in carico gira la testa dall’altra parte, fa finta di non vedere o peggio, normalizza il bullismo considerandolo una goliardia, mostrando così profonda incompetenza. Il formatore ha il compito di aiutare entrambi e se non è in grado di farlo da solo ha il dovere morale di chiedere aiuto ad una persona qualificata.
Il bambino che bullizza ha bisogno di sostegno e di aiuto tanto quanto il bambino bullizzato, spesso un comportamento così abusante e prevaricante nasconde vari tipi di traumi emotivi. Si tratta di personalità che vedono la violenza (verbale o fisica) come qualcosa che non ha valore negativo, normalmente hanno un’opinione molto positiva di sé, si credono al di sopra delle regole e mostrano scarsa empatia verso i propri bersagli. Il bambino che bullizza è un soggetto che molto probabilmente non è stato abituato a riconoscere e nominare le emozioni più intense e non possiede gli strumenti per gestirle quando queste lo confondono. I bulli possono generare negli altri fascinazione, attrattiva o persino simpatia, il che non fa che rinforzare certi aspetti narcisistici della sua personalità. Se non viene aiutato a vedere sé stesso e riconoscere il valore dell’altro, il piccolo bullo diventa facilmente un adulto abusante. Allo stesso modo il bambino bullizzato può sviluppare da adulto vari disturbi come ansia generica, agorafobia, attacchi di panico, depressione, difficoltà a raggiungere obiettivi formativi e lavorativi, isolamento volontario e persino ipocondria.
Me la sono presa larga per evidenziare quanto il campionario di relazioni tossiche che si possono presentare nell’ambiente della danza possa avere effetti nefasti sul giovane allievo non solo per il danzatore che sarà ma sulla persona che diventerà da adulto e sulla coerenza dei suoi futuri legami sociali.
No, decisamente la danza non è quel mondo rosacipria che in molti immaginano, esiste una pericolosa accettazione della sofferenza come ingrediente fondamentale del successo, dell’idea che l’insegnante tratta male perché ci tiene o che per poter danzare bisogna annichilire la propria persona imparando ad incassare ogni tipo di abuso fisico e psichico.
Questo non lo dico soltanto io, il muro del silenzio si è rotto anche nei templi più sacri in cui l’arte della danza è stata fino ad oggi custodita.
È datata primo aprile 2024 l’intervista di Radio France a Aurelie Dupont, che non ha certo bisogno di presentazioni: una lunga e cruda chiacchierata in cui vengono dette cose importanti. Usando le parole della Dupont:
“Le persone che si trovano fin da piccole in una sorta di lavatrice, un corridoio dove bisogna andare avanti a tutti i costi, con una forma di urgenza di andare avanti, rischiano di non porsi le domande essenziali”
e aggiungo, specialmente quando si usa lo sprone dell’umiliazione, della vessazione o del tocco fisico non idoneo o non desiderato.
Mi capita di scovare online vecchie sessioni di prove di ballerini famosi o lezioni delle grandi accademie in cui sono evidenti atteggiamenti abusanti. A volte ho commentato facendo notare questo dettaglio e mi è stato risposto che non capisco quanto sia importante quel tipo di severità per raggiungere risultati, addirittura c’è chi non vede alcun abuso in quei filmati. Credo che fino a che l’ambiente formativo della danza non si metterà una mano sul cuore e non vedrà la realtà, questa situazione resterà invariata ancora per i secoli a venire e molte altre vite ne verranno devastate, la maggior parte delle quali senza neanche averne consapevolezza ma considerando normale tutto questo.
Chi nega o fa finta di non vedere è complice di un sistema distruttivo per la persona.