Sono sempre stata consapevole che il momento che sto vivendo sarebbe arrivato prima o poi, è nel corso naturale delle cose, dell’esistenza stessa: un processo in costante divenire. I contesti cambiano, si trasformano, tutto ciò che credi di aver imparato va ricalibrato ogni giorno per adattarsi alle nuove necessità, richieste, tendenze, senza snaturarsi, senza perdere l’essenza, solo aggiungendo nuove informazioni a quelle già esistenti per poi integrarle in un nuovo quadro d’insieme.
Credo che gli anni sul mio groppone comincino ad essere abbastanza da non permettere più questo adattamento senza snaturarsi perché il contesto è cambiato così tanto da non sentire più alcuna risonanza con ciò che contiene, ecco dove si trova la mia relazione con la danza e confrontandomi con alcuni colleghi della mia generazione ho compreso che si tratta di un sentito diffuso, condiviso tra molti. Una delle spiegazioni che mi sono data è che la nostra generazione ha avuto il privilegio di vivere una stagione estremamente ricca e ispirata per quest’arte, piena di grandi rivoluzioni che hanno creato qualcosa di unico e prezioso che ancora oggi, come una linfa, scorre in ogni opera danzata del mondo, a volte in modo inconsapevole.
Sono una danzatrice contemporanea con alle spalle una lunga e approfondita esperienza con il balletto. Su di me hanno avuto una grande influenza gli incontri con i grandi maestri del post-modern americano, ossia tutto ciò che fa capo a quella grande mente geniale che era Trisha Brown e alla release technique. Personalmente penso sia quasi una contraddizione in termini chiamarla “tecnica” perché in realtà siamo al cospetto un metodo di indagine nelle possibilità del corpo, per imparare ad usarlo nel modo più vicino alla sua fisiologia e alle leggi della fisica sviluppando, ricordando, ritrovando tutte quelle competenze già presenti che consentono alla danza di fluire dall’essere come acqua di sorgente. Dal mio punto di vista in questa ricerca si concentra l’espressione più alta e raffinata del movimento danzato, in equilibrio perfetto tra tensione e rilascio, tra sforzo e abbandono, tra caduta e sospensione, lentezza e velocità. Imparare a danzare con questa stirpe di maestri e danzatori straordinari è stata un’esperienza trasformativa, che ha rivoluzionato totalmente il mio concetto di danza, di bellezza, di movimento.
La generazione dei miei studenti (coloro che oggi hanno 19/24 anni) considera tutto questo patrimonio come una visione superata sul movimento, qualcosa di obsoleto, un pezzo di antiquariato che si pratica più per cultura personale che non per effettiva utilità. Bisogna dire che in Italia questa tecnica non ha avuto molto successo, spesso fraintesa, considerata come un linguaggio senza vigore, a basso voltaggio energetico, quando invece si tratta di un metodo che permette grandi slanci esplosivi e velocità, ma con naturalezza.
Ad ogni modo molti giovani danzatori oggi sentono questo linguaggio lontano dal loro mondo, che effettivamente si muove su presupposti differenti. Ciò che va per la maggiore adesso sono quelli che vengono chiamati “trick”, ossia trucchi, strumenti per eseguire acrobazie di vario tipo, elementi oggi irrinunciabili per ogni danzatore contemporaneo: più ne sai e più sei bravo. Ci sono seminari in cui si va praticamente per imparare questi elementi atletici per poi inserirli nel proprio repertorio. Altro elemento è la velocità, no matter what bisogna spingere il corpo in territori inimmaginabili fino a qualche decennio fa, al limite massimo fermandosi un attimo prima che si spezzi (non sempre si riesce) ed è questo il motivo per cui nelle compagnie si possono trovare artisti che hanno un passato da atleti, marzialisti, acrobati, perché questo è il tipo di fisicità richiesta, una prestanza in cui si possano usare indifferentemente braccia o gambe per muoversi da e verso il pavimento con agilità, senso del rischio e rapidità.
Questa tendenza all’accelerazione che ha abbracciato ogni aspetto dell’esistenza negli ultimi anni ha ovviamente coinvolto anche la danza, in ogni fase della filiera produttiva. Oggi i tempi di creazione di un’opera sono più brevi rispetto a prima, fatta eccezione per i grandi coreografi che per fortuna hanno la possibilità di prendersi il tempo per portare a termine la gestazione di uno spettacolo. Anche l’apprendimento e i momenti di studio si sono ridotti notevolmente. Qualche giorno fa parlavo con un collega di tutti questi argomenti, entrambi stupiti da quanto fosse simile il nostro sentire. Lui organizza eventi formativi con maestri davvero eccezionali, alcuni dei quali provengono da quel mondo ormai quasi dimenticato ma che ancora oggi sarebbe in grado di donare strumenti preziosi, se non indispensabili, a qualsiasi danzatore. Ciò che emerge in questi ultimi anni è la preferenza verso eventi formativi di breve durata, due giorni piuttosto che una o due settimane.
Purtroppo bisogna dire che la raffinatezza della ricerca che la vecchia generazione di maestri porta nel proprio lavoro è molto difficile da trasmette nel breve termine, specie a persone che ne sono totalmente digiune, bisogna stare nelle cose più a lungo. Non dico che sia più facile imparare i trick, per cui serve tempo prima di poterli padroneggiare al punto da inserirli in una coreografia o in un’improvvisazione, però certamente la sensibilità richiesta da una ricerca sul movimento che coglie anche da pratiche somatiche quali BMC o anatomia esperienziale, porta il danzatore ad un latro tipo di attitudine mentale, più interiorizzata e meno portata verso lo sguardo dello spettatore, più calma e presente nel momento e meno proiettata verso un risultato spettacolarizzante. Serve tempo per capire.
Quello che molti danzatori della mia generazione vedono nel trend del momento è una danza frenetica (quando si parla di tendenze ci si riferisce alla massa, ovviamente, in cui ci sono eccezioni) che si esprime con una qualità perennemente esplosiva e accelerata, che punta a mostrare le capacità del corpo fisico ma che forse perde un po’ di vista altri elementi importanti, quali l’intelligenza spaziale, la musicalità, l’importanza del vuoto, il senso drammaturgico, il messaggio originario che sta alla base di quella danza.
Sapevo che sarebbe arrivato il momento in cui non mi sarei più riconosciuta nella danza, in cui gli anni sarebbero diventati uno iato a separarmi dal nuovo che avanza. Molta della danza che vedo, sia in scena che online, mi lascia spesso indifferente perché nonostante apprezzi molto lo straordinario lavoro sul corpo de danzatori, forgiandolo fino a diventare uno strumento estremamente reattivo e prestante, mi manca un po’ il senso, mi manca quel sublimare la tecnica nella significanza fino a quasi farla scomparire. Sembra quasi che l’atletismo del corpo danzante sia diventato il fine e non più il mezzo e questo per me corrisponde ad una sorta di ritorno ad un “formalismo” che credevo avessimo superato una volta per tutte. Credo mi manchi il processo che porta dall’immaginazione all’incarnazione di quella idea in qualcosa di coerente e potente. Il virtuosismo tecnico ci sta ed è importante ma solo se assoggettato al racconto, per quanto mi riguarda, altrimenti è subito noia.
Quando sono di fronte ad un’opera che è il risultato di questo lungo lavoro di gestazione creativa, stratificazione di segni coreografici a comporre un linguaggio originale, lo percepisco immediatamente e mi ritrovo senza sforzo nel mondo in cui l’autore o l’autrice mi hanno invitata ad entrare. Questo per me è il senso più profondo del “fare danza”, si tratta della manifestazione fisica e non verbale di un messaggio che deve catturare lo spettatore, non importa in che modo venga interpretato, non importa che sia d’accordo o meno, la cosa importante è che – ancora prima della tecnica – si venga toccati dal nucleo vivo e vitale dell’opera.
Oggi molti danzatori sono anche autori di sé stessi e penso abbiano un gran bisogno di ripartire anche da quello che c’è stato prima, da quell’indagine così approfondita e puntuale che la release technique rappresenta, per acquisire strumenti utili a trasformare un movimento in poesia, un’azione scenica in qualcosa di significativo, che sia all’interno di un’opera astratta o di qualcosa che abbia uno scopo drammaturgico ben preciso, poiché in fondo non occorre avere necessariamente una storia per parlare di drammaturgia, dal momento che questa è presente nel corpo come qualità intrinseca, come Merce Cunningham, altro genio del suo tempo, ci ha insegnato.