Lia Courrier: “La fiducia nel corpo, questa grande assente”

di Lia Courrier
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Quella appena trascorsa è stata una settimana ricca di riflessioni, tutte legate dal filo rosso dei pensieri. Oggi, quindi, vorrei provare insieme a voi a fare ordine in mezzo a tutte queste informazioni in modo coerente.

Tutto è cominciato da una condivisione di Weiyi Xia, collega di grande esperienza e sensibilità, in cui rifletteva sull’importanza di nutrire fiducia nel proprio corpo, di come questa presenza nell’esperienza umana ci permetta di trarre piacere da ogni gesto e azione che compiamo con lo straordinario veicolo che abitiamo. La carenza di questa fiducia non solo limita la nostra libertà personale ma rende anche difficile un autentico incontro con l’altro, che sia lasciarsi andare dentro a un caldo abbraccio oppure abbandonarsi nella dinamica del partnering, giusto per restare nell’ambito di discussione che più ci compete.

In un rapido scambio di messaggi che è seguito, abbiamo entrambi convenuto che per le donne è ancora più difficile ripristinare questa fiducia, a causa dei tanti condizionamenti che riguardano il femminile, cui siamo sottoposte fin da piccole ma anche ereditati dalle precedenti generazioni, che ci sottopongono ad insane richieste di corrispondere a modelli. Da qui la difficoltà di conquistare la fiducia nel proprio corpo, almeno non senza un profondo lavoro interiore per liberarsi da tutte queste concrezioni, un processo che più facilmente arriva con la maturità, credo. Più in generale, per tutti, ci vogliono tempo, discernimento ed emancipazione intellettuale per poter ritrovare sé stessi, indipendentemente dall’identità di genere cui ci sentiamo di appartenere.

Ha fatto parlare di sé la puntata di un noto talent televisivo, in cui un’insegnante di danza si è lasciata andare alle solite considerazioni sul peso di una concorrente, informando tutti che a seguito di un regime alimentare aveva già perso due chili e mezzo in una settimana. Non mi lascerò andare a commentare questo siparietto, probabilmente costruito a tavolino dagli autori per smuovere un po’ di attenzione, anche perché non ho visto la registrazione e non ho alcuna voglia di farlo. Per curiosità però sono andata sul profilo instagram del programma e con mio grande dispiacere e disappunto ho trovato i like di alcuni miei ex allievi che purtroppo continuano a bruciarsi il cervello seguendo questo scempio di trasmissione. 

Questi personaggi (non persone, attenzione) si prestano al condizionamento delle menti più deboli e vulnerabili, al servizio dello share, diffondendo disinformazione, miseria mentale,  alimentando un’idea surrogata e distorta della danza, che in Italia sta ormai diventando sinonimo di sofferenza, coltelli tra i denti, egocentrismo, narcisismo, privazione e DCA. 

In una società che ha progressivamente dissociato le persone dell’esperienza somatica, dove la percezione del corpo è ormai limitata nell’angusta sfera del suo aspetto esteriore e non come luogo in cui fare esperienza della vita; in cui il concetto di salute è totalmente avulso dal dialogo interiore e ridotto alla pelle liscia e senza pori, chiappe sode e vita sottile; gli insegnanti di danza sembrano a volte pronti ad affondare la lama laddove la ferita è già aperta, aggiungendo l’ennesima dose di insicurezza a quella già presente e aspettandosi anche che questo funzioni da sprone.

Come posso far capire che le nuove generazioni hanno bisogno di un profondo lavoro interiore per ripristinare quella equilibrata fiducia in sé stessi necessaria per realizzare i propri progetti, partendo dai propri talenti e le proprie capacità? Che hanno bisogno di adulti risolti e centrati in sé stessi come guide ed esempi di presenza, competenza, emancipazione da un certo tipo di pensiero unico?

Questi giovani ipersensibili e insicuri non sono più disposti a sottoporsi ai metodi da milizie armate utilizzati precedentemente, non è questo il metodo di apprendimento di cui hanno bisogno, inutile stare qui a rimembrare i bei vecchi tempi quando l’insegnante di danza ti puntava gli spilli sotto a una gamba per fartela alzare. Credo non siano da biasimare se non accettano più questo tipo di abusi e se trovo assurdo, come già detto qualche settimana fa, che si arrivi a consigliare di non toccarli per correggerli, allo stesso modo credo che questa estremizzazione nasca da un tentativo di rimettere le cose (e le mani) a posto, di sentirsi davvero visti come esseri umani.

Questa discussione sulla magrezza delle ballerine ha stancato, bisogna che in questo programma si cambino gli autori perché non sono più in grado di tirare fuori nuovi argomenti. Queste teorie assurde sulla “forma fisica” delle ballerine, inoltre, non hanno alcun fondamento scientifico perché se un corpo non è naturalmente esile e si costringe a un regime alimentare che lo priva di nutrienti, non è che potrà cambiare le proprie caratteristiche genetiche, quello che accadrà sarà solo deperimento, a seguito del quale il corpo inizierà a cedere manifestando fratture e infortuni, nei casi più fortunati, come accade anche ad alcune prime ballerine che seguo e che trovo, purtroppo, in evidente stato di denutrizione.
Alcuni miei amici non danzatori, che non si conoscono tra loro, mi hanno detto una cosa che fa pensare, ossia che non si sentono a proprio agio a guardare la danza classica quando le interpreti sono troppo magre, perché anziché provare piacere nell’osservare il loro movimento, per quanto brave siano, percepiscono la sofferenza in quei corpi così deboli costretti a sopportare un tale sforzo fisico.

Un’allieva l’altro giorno mi ha trattenuta dopo la lezione facendomi un solenne discorso sul fatto che le sue ginocchia hanno una conformazione tale per cui anche quando le distende le sembrano piegate, come se questo fosse un invalicabile ostacolo alla sua formazione e alla successiva carriera. Ho cercato di spiegarle che la danza è anche altro, che le linee sono importanti, certo, che ci si può lavorare, con pazienza e intelligenza, ma che ci sono altre componenti animiche e artistiche ancora più importanti, senza considerare il piacere di sentirsi totalmente coinvolti nel movimento senza che lo sguardo e l’attenzione siano costantemente intrappolati in questi dettagli tutto sommato di valore relativo. Come posso io trasmettere questa idea della danza quando l’intero mondo spinge verso la forma, il mentale e l’estetica?

Su un altro social, invece, mi compare un video in cui una ragazza obesa interpreta la morte del cigno sulle punte. Qualcuno nei commenti evidenzia quanto sia potenzialmente pericoloso per la struttura ossea andare sulla punte in quella condizione, scatenando le ire dei fanatici del “body positive” che si riempiono la bocca e la tastiera con la parola “arte”, usata totalmente fuori contesto. Mi sembra che nel mondo della danza, nonostante si riesca a rimanere in equilibrio su una gamba per diversi minuti, manchi drammaticamente l’equilibrio etico, morale e psichico.

Come spiegare la fiducia nel corpo a questi ragazzi?

Come spiegare il piacere del corpo che danza?

La risposta è che non si può, è un’esperienza che soltanto loro possono fare, il nostro ruolo è quello di ripulire il contesto in cui si muovono e offrire con la nostra presenza un modello di pensiero differente.

A questo proposito, la mia amica Mariafrancesca Garritano, in arte Mary Garret, ha avviato un crowdfunding per produrre il documentario “La danza che ho vissuto”. Outsider da sempre, ha scelto la via del finanziamento dal basso per raccontare la sua versione in modo indipendente, senza dover rispondere a nessun altro se non a sé stessa. Il contenuto del racconto sarà la sua visione attraverso la personale esperienza, che può anche non essere condivisa e approvata da tutti, ma che comunque è frutto di una vita dedita all’arte tersicorea e all’impegno sociale su alcune tematiche di cui nessuno ancora oggi vuole parlare. Chiunque sia curioso divedere questo documentario può divertarne finanziatore con una donazione. Per saperne di più cercate il profilo instagram ladanza_chehovissuto per ascoltare il progetto direttamente dalla voce e dal corpo di Mary Garret e dal regista che realizzerà quest’opera.

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