In quasi tutte le sale di danza è presente un grande specchio che occupa una o più pareti. Sebbene si tratti di un elemento d’arredo estremamente elegante, che apre lo spazio dando l’impressione che la stanza sia grande il doppio, lo specchio non se ne sta lì per bellezza, ma perché i danzatori lo utilizzano.
Quando il maestro spiega gli esercizi, per esempio, o quando un coreografo crea sequenze per i suoi danzatori, per convenzione si posiziona di fronte allo specchio, che viene considerato la direzione principale verso cui rivolgersi, dando le spalle al gruppo. Grazie allo specchio è possibile per i danzatori osservare chi guida sia da dietro che dal davanti, permettendo una visione totale del corpo, essenziale per comprendere meglio il materiale proposto. Ugualmente il maestro, o il coreografo, può usare lo specchio per vedere cosa accade dietro di sé, dando le correzioni anche mentre si muove davanti al gruppo. Ma questo elemento ha anche un’altra importantissima funzione: donare al nostro osservatore interno un paio di occhi da cui osservare dall’esterno, che poi sono sempre i nostri, per correggerci da soli mentre danziamo. È uno dei tanti strumenti di cui disponiamo, insomma, ma è difficile utilizzarlo nel modo corretto, riservandogli il posto che gli spetta e che certamente non si trova in prima fila.
Lo studio e la pratica della danza ci pongono quotidianamente di fronte ai nostri limiti e con questa premessa può capitare che uno dei peggiori nemici del danzatore, il giudizio, faccia capolino. Non parlo solo di quel gran petulante del ‘Sé giudicante’, che già da solo sarebbe sufficiente a rovinare la festa, ma anche il giudizio degli altri, che in certe situazioni può diventare una minaccia percepita alla nostra libertà di espressione, minando la sicurezza in noi stessi.
Non sempre, in effetti, abbiamo una visione di noi stessi pienamente aderente alla realtà, né siamo davvero consapevoli di cosa il nostro corpo realmente comunica agli altri. Bisogna essere dei danzatori maturi e centrati per accettare la propria danza esattamente così com’è, comprendere come valorizzarla, senza l’intrusione di elementi tossici, usando lo specchio in modo equilibrato nel proprio lavoro quotidiano, senza dipendere da ciò che il nostro sguardo coglie nell’osservare la propria immagine riflessa. Insomma: la fiducia nella propriocezione e nella consapevolezza che abbiamo acquisito nel sentire il corpo danzante, conquistata in anni e anni di indagine e duro lavoro, non dovrebbe mai soccombere al feedback fugace che giunge dallo specchio.
Personalmente preferirei non averlo in sala, questo permetterebbe ai danzatori di sviluppare il senso cinestetico, senza questo bisogno di continue occhiate, se non addirittura fissità dello sguardo allo specchio, che frammentano l’attenzione, disturbano l’integrazione del corpo che danza e tolgono spazio all’aspetto interpretativo del gesto. Lo specchio ci rimanda un solo punto di vista, il nostro, si tratta di una visione parziale e incompleta, mentre invece la sensazione sentita del corpo che si muove è totale, sincera e tridimensionale.
Il rapporto di amore e odio nei confronti dello specchio è un problema molto diffuso e spesso irrisolto, in particolare nelle lezioni di danza classica, forse perché si tratta di un linguaggio che, almeno ad una prima, superficiale analisi, pare affondare le proprie basi sull’estetica del corpo e del suo movimento, apparentemente senza alcun invito all’introspezione o alla drammaturgia del corpo. Un fraintendimento gigante, questo, dal momento che tutti questi aspetti invece sono ben presenti anche nel balletto, a lezione come in scena.
Molti danzatori non si accorgono neanche della loro dipendenza dallo specchio, e onestamente dubito fortemente che riescano a vedere alcunché, il più delle volte, come per esempio durante il tempo di volo di un salto, quando l’unica cosa che può essere catturata dall’organo della visione è una macchia amorfa in movimento. Quando li vedo eseguire il piquès in primo arabesque, con la testa rivolta lì dove la tecnica lo richiede, ma con la pupilla incollata lo specchio, mi sembrano dei piccioni, con quel loro occhio tondo e spalancato posto a lato della testa. Credo che il corpo dei ballerini subirà una mutazione nel tempo, e gli occhi si sposteranno di lato, per consentirgli di guardare comodamente lo specchio anche in primo arabesque.
Altre volte invece vedo movimenti assolutamente corretti, ispirati, pieni di una perfetta tensione, che si sgretolano non appena lo sguardo va allo specchio, e l’immagine riflessa risveglia inesorabilmente il Sé giudicante che se ne sta sempre acquattato da qualche parte pronto a sferrare una zampata, con la conseguenza che, nel tentativo di mettersi a posto per rispondere ad una estetica preconfezionata, quel movimento così perfetto e puro perde totalmente di intensità.
L’azione di guardarsi costantemente allo specchio, per controllarsi e mettersi a posto secondo quel rimando piatto e senza volume, è ripetitiva e priva di creatività, meramente atletica, e non dovremmo lasciargli più spazio di quello che si merita. Liberiamoci da ogni idea preconcetta sul movimento, e lasciamo che i nostri corpi vivano appieno la gioia e la pienezza di un arabesque che si sviluppa tridimensionalmente nello spazio, senza doverci sempre preoccupare di come apparirà dall’esterno. Nessuna finzione è interessante nel corpo che danza: solo la verità, anche se soggettiva, rende un movimento capace di risuonare nello spazio in modo significativo.