Lia Courrier: “La questione etica sul futuro degli allievi”

di Lia Courrier
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Insegno balletto, da ormai due decenni circa, in formazioni professionali e da qualche tempo una questione etica si presenta insistentemente, chiedendo la mia attenzione e riempiendomi di domande e dubbi.

Partiamo da due fatti fondamentali che, presenti contemporaneamente nello stesso luogo e nello stesso tempo, creano una reazione a dir poco incendiaria: il primo fatto è il crollo dei posti di lavoro nell’ambito dei mestieri della scena, e questo non solo a causa della recente emergenza pandemica, ma anche a seguito dell’aumento esponenziale di persone che vogliono intraprendere questo tipo di percorso. Tanti giovani ambiscono alla carriera nella danza, e investono tempo, energie e risorse economiche per inseguire questo sogno, ma di questi solo qualcuno riuscirà a farne un mestiere, una parte ancora più esigua rispetto ai miei tempi.

Il secondo fatto riguarda una generazione che presenta vulnerabilità sia nel corpo fisico (molti infortuni, usura precoce, ma questa è un’altra storia di cui magari parleremo un’altra volta) che in quello psichico. Per questioni sociali, ambientali, culturali e familiari, sono attratti da ciò che riescono ad ottenere in poco tempo, forse per stare dietro anche alle richieste di una vita che oggi viaggia molto veloce, e si fatica ad allinearsi ai ritmi di qualcosa che invece richiede molto tempo, o che obbliga a sforzi continui e prolungati nel tempo, prima di poter dare risultati tangibili,

Ciò che emerge da questo contesto è che molto spesso i giovani danzatori, anche quelli di talento, studiano per formarsi, con grande investimento (e anche soddisfazione) da parte del corpo docente, per poi lasciar spegnere la spinta alla prima difficoltà, che può essere un’audizione andata male, un grande cambiamento da affrontare, un nuovo percorso formativo da cominciare o altre mille sfide che la vita (anche senza la danza) ci porta costantemente ad affrontare.

Alcuni colleghi mi dicono che non è mia competenza preoccuparmi di questo, che il mio compito è dare loro una preparazione tecnica e artistica, che di questo bagaglio ne faranno qualcosa a tempo debito, se vorranno. In parte sono d’accordo con queste osservazioni, ogni seme germoglia quando è il suo momento, e noi insegnanti possiamo arrivare solo fino ad un certo punto, il resto è nelle loro mani, certo, ma io non riesco a darmi pace al pensiero che questi ragazzi sono impegnati in percorsi molto costosi (sotto diversi punti di vista), per inserirsi in un ambito estremamente competitivo e in cui i posti sono pochi, qui in Italia praticamente zero, magari senza essere neanche armati a dovere con la spada della motivazione, lo scudo dell’autostima, la lancia della chiarezza d’intenti.

Forse hanno ragione i miei colleghi, e sono io a sentire sulle mie spalle più responsabilità di quella che mi compete, ma quando trascorri tre anni con i ragazzi, vedendoli quasi tutti i giorni, come si fa a non preoccuparsi per il loro futuro? Come si fa a non aiutarli a coltivare quella forza che li prepara a gettarsi nella giungla che li aspetta?

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