Lia Courrier: “La relazione insegnante-allievo non è una relazione di sudditanza ma di collaborazione, siamo noi insegnanti ad offrire un servizio ai nostri studenti”

di Lia Courrier
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Qualche minuto fa stavo riordinando le idee in previsione di scrivere questo numero di SetteOtto, quando mi capita di vedere una dichiarazione pubblica da parte di uno dei miei contatti sui social, nonché cara allieva che ormai da anni non studia più con me. Scelgo quindi immediatamente di cambiare argomento poiché il contenuto del suo messaggio è talmente interessante da catalizzare la mia attenzione. Attraverso le storie instagram questa giovane danzatrice racconta di aver abbandonato un programma a cui stava partecipando, in forma di workshop-audizione, dopo aver capito di essere finita nell’ennesima realtà in cui i danzatori maltrattati verbalmente e fisicamente. Stanca di questo clima di aggressività costante, mortifero, permeato da tristezza, frustrazione e rabbia, che tuttavia ha già incontrato altre volte nel mondo della danza (e per questo ne ha subito riconosciuto il profilo) ha deciso di ritirarsi nonostante fosse mossa dai migliori propositi e con obiettivi da conseguire nei prossimi mesi. Il suo gesto è frutto di una profonda riflessione e ponderazione, una decisione presa anche come azione politica nei confronti di questo mondo a volte così inutilmente e gratuitamente rude. Ad aggravare la situazione, in questo caso specifico, la dichiarazione di chi conduce il laboratorio che palesa apertamente come la modalità aggressiva sia utilizzata per spronare gli artisti a superare i propri confini e attuare delle trasformazioni, insomma il maltrattamento come pungolo: sai che novità!

Forse non sanno, questi signori, che persino Jan Fabre è stato protagonista di un caso legale che si è concluso con una condanna per bullismo, violenza e comportamenti sessuali indesiderati e 18 mesi di carcere per lui.

La danzatrice continua poi dichiarando che è ora che il popolo della danza cominci a volersi bene, che si ribelli a questo sistema pernicioso in cui vessazioni e umiliazioni vengono considerate pratiche accettabili.

Trovo l’azione di questa giovane donna e danzatrice molto potente, un importante messaggio per tutti coloro che in questo momento si trovano in situazioni formative o lavorative in cui vige questa modalità. Ho spesso parlato di questo argomento ma solo dal mio punto di vista di insegnante, ricordando quanto sia importante lavorare su sé stessi, sanando le proprie ferite e risolvendo i propri conflitti prima di mettere le mani, gli occhi e le parole su qualcun altro, poiché abbiamo davanti persone e non corpi-utensili da sfruttare a nostro piacimento fino a spezzarli. Il punto di vista del danzatore, in questo caso, completa il quadro rivelando la fragilità della nostra posizione, poiché se tutti i danzatori scegliessero di abbandonare i maestri o i coreografi che non usano amorevole rispetto nei loro confronti, questi si ritroverebbero soli e abbandonati, così forse le cose potrebbero finalmente cambiare.

È un po’ come la questione che riguarda l’etica del mercato: non possiamo sperare che le aziende producano articoli eco-sostenibili di qualità, ad un costo equo e che non siano dannosi per la nostra salute, se noi continuiamo ad acquistare i loro prodotti-spazzatura. L’unico strumento per contrastare questo sistema folle e dannoso, per noi e per l’ambiente, è esercitare il potere che ogni consumatore ha, ossia quello di non comprare, altrimenti non si è che complici. Ci si può anche lamentare, si può criticare il sistema ma questo non cambia le cose, l’azione invece sì, ha un potere enorme.

Molte volte ascolto atterrita i resoconti dei miei allievi che riguardano il trattamento a loro riservato dai maestri di danza (devo dire, ahimé, specialmente dagli insegnanti di danza classica) che hanno procurato loro vari tipi di ferite difficili, se non impossibili, da guarire. Spesso subire queste continue pressioni psicologiche per lungo tempo – stiamo parlando di anni – ha minato il loro amore per la danza al punto da fargli desiderare di lasciarla. Il loro però non era disamoramento verso l’arte in sé ma una reazione istintiva di difesa alle percepite minacce reiterate nel tempo, che li hanno traumatizzati a tal punto da non riuscire più a fare ciò che amavano tanto. Sembra incredibile che accadano simili eventi nel 2023, con tutti gli studi e la ricerca di cui disponiamo oggi sui processi dell’apprendimento, ma la danza è profondamente, epigeneticamente legata a strategie obsolete nate in seno ad una società che oggi non esiste più, che sono state trasmesse di generazione in generazione senza che nessuno si ponesse domande a riguardo. A questo va aggiunto che non esistono percorsi formativi dedicati all’insegnamento (a parte l’A.N.D.) in cui si affronti anche la questione della trasmissione come “arte dell’aiutare” e non di umiliare, sottomettere, forzare.

La relazione insegnante-allievo non è una relazione di sudditanza ma di collaborazione, siamo noi insegnanti ad offrire un servizio ai nostri studenti, non dovremmo mai dimenticarlo. Questo mette tutto in una luce diversa, sotto alla quale l’allievo dispone del libero arbitrio, del diritto di dire di no, di denunciare persino, se serve. Tutte le volte che uno di questi racconti atroci mi viene consegnato con dolore, chiedo sempre: “hai fatto qualcosa affinché questa situazione cambiasse?” e la risposta è sempre “no, niente. Cosa avrei potuto fare?”.

Per paura delle conseguenze, per non dover abbandonare i progetti, per le promesse che spesso vengono fatte riguardo a fantomatici contratti di lavoro, possibilità, vetrine e quant’altro, non si ha la forza e il coraggio di contrastare, di mettere dei paletti, di rivolgersi alle sedi appropriate o semplicemente di allontanarsi da ciò che nuoce al corpo e all’anima. Si preferisce restare e subire, resistere, tanto prima o poi finirà. Purtroppo il rischio è quello di adattarsi a queste modalità fino a perdere il senso del limite e sarà sempre più difficile rendersi conto di quando gli altri entrano nel nostro spazio privato facendo i propri comodi e devastando tutto.

La restituzione eroica della vita con la danza che parla di sacrifici, sopportazione di fatiche epiche senza mai piegarsi, senza mai crollare o piangere, di prove estenuanti con infortuni, dolore e sangue nelle scarpette, di insegnanti e coreografi odiosi e bacchettoni, è forse adatta come soggetto per qualche brutto film sulla danza (come Black Swan, per esempio) ma non per diventare bravi danzatori nella vita reale. Vorrei che la storia che ho raccontato oggi in questo numero servisse da esempio per tutti, che fosse un segnale importante per comprendere che sopportare soprusi senza proteggere sé stessi e la propria salute mentale non è amore per la danza.

Ripeto: tutto questo non è amore per la danza.

Non può esserci autentico amore per la danza laddove non esiste amore per sé stessi.

Quello della danza è già di un mestiere abbastanza duro, difficile e richiedente da ogni punto di vista, se non custodiamo in noi un fulcro di presenza e di integrazione il rischio di frammentarsi, dissociarsi e perdersi è molto alto.

È una storia di confini, di decidere fino a che punto si è disposti ad arrivare, perché la sensibilità di ognuno è diversa e forse qualcuno ha bisogno di maniere forti per dare il massimo (anche se questo potrebbe essere comunque sintomo di una ferita pregressa) ma la maggior parte delle persone necessita di gentilezza e supporto amorevole per imparare in modo sano e proficuo.

Il primo passo è rendersi conto di essere in una situazione di violenza, fisica o psicologica; il secondo passo è compiere questo atto di amore verso sé stessi mettendo un limite a ciò che ci fa stare male, ognuno troverà la modalità più adatta per proteggersi.

Mi sento di ringraziare di cuore colei che ha ispirato l’articolo di questa settimana di cui non rivelerò l’identità, naturalmente. Ho scelto di raccontare il suo gesto perché avrà certamente meno risonanza del racconto di chi dichiara di aver subito molestie e soprusi, che subito assurge alla pubblica fugace indignazione della domenica a cui siamo abituati. Siamo inclini a prestare maggiore attenzione alle storie di violenza anziché a quelle di chi ha fatto qualcosa per farla cessare, riprendendosi la propria vita e la propria dignità.

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1 commenti

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Daniela Baldo 1 Giugno 2023 - 13:20

Un articolo che apre una porta verso un nuovo migliore modo di vivere la formazione ! Spero possa arrivare a tanti questo punto di vista meraviglioso!!❤️

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