PREMESSE: il movimento che sui social si è diffuso con l’hastag #metoo, grazie ad un’intuizione di Alyssia Milano che ha inventato il tag, è stato uno dei principali soggetti delle prime pagine dei giornali e sul web, a partire dal 2017.
Si è assistito ad un incredibile effetto domino grazie al quale è emersa prepotentemente la questione delle molestie sul posto di lavoro, e questo movimento è diventato in breve tempo una sorta di manifesto per migliaia di donne che hanno trovato la forza per denunciare episodi accaduti anche parecchi anni prima.
In questo enorme guazzabuglio di accuse, che piovevano a destra e a manca, molte sono state anche le donne che hanno preso le distanze da questo movimento, partito dal mondo dello spettacolo, ambito in cui, da che mondo e mondo, esiste un confine sottile tra la seduzione e la promiscuità, tra il gioco e il sopruso. Questa ambiguità nelle relazioni professionali è uno dei motivi per cui non esistono prove certe per ogni caso, per questo le detrattrici non credano sia corretto accusare qualcuno senza poter dimostrare i fatti con certezza assoluta. Sostengono inoltre che da sempre si era a conoscenza di certi dettagli del ‘dietro le quinte’, ma che finora si era taciuto, un po’ per discrezione e un po’ per eccesso di tolleranza.
A mio parere, la presenza di questa cortina omertosa di silenzio non fa che aggravare la faccenda, confermando ancora una volta che sia considerato da tutti lecito utilizzare il corpo delle donne come un oggetto di scambio o da collezione. Credo che, anzi, l’aspetto più importante di questo movimento, sia proprio che finalmente le donne hanno deciso di dire basta, e dicendolo ad alta voce hanno dato la forza ad altre donne di parlare e vedere quanto grande sia questa macchia. Grazie a questa catarsi contemporanea, le donne sanno che quando gli uomini credono di avere il diritto di possesso su di loro, in virtù di qualche piccolo potere, devono essere immediatamente fermati. Una delle prime libertà che ogni essere umano ha per nascita è proprio quella di dire di no, di rifiutarsi di stare in situazioni tossiche e pericolose per la propria persona. Libertà che non sempre si riesce ad esercitare, per svariate ragioni, ma forse oggi ci si potrà appoggiare alla forza collettiva di questo movimento, per poter fermare in tempo chi viola la sfera privata senza che gliene sia stato dato il permesso.
Nell’ambito dello yoga già dal 2010 hanno cominciato a emergere scandali che hanno coinvolto alcuni tra i più importanti “guru” esistenti (volutamente tra virgolette e in minuscolo). Su Netflix è uscito da poco il documentario sul caso Bikram Choudhury, celebre insegnante di yoga arrivato in USA direttamente da Kolkata (Calcutta) e fondatore del Bikram yoga, la tecnica che porta il suo nome e che oggi viene spesso indicata come ‘Hot yoga’: una pratica dinamica e intensa che si esegue in una stanza a quaranta gradi centigradi. Il documentario raccoglie testimonianze di donne che hanno subito da lui assalti sessuali e molestie di vario tipo, anche abuso psicologico e violenza verbale. Bikram viene presentato come un predatore, e i documenti video contenuti in questo importante film, parlano chiaro su quale fosse il metodo da lui utilizzato.
Nel 2012 è la volta di John Friend, ossia il creatore di Anusara Yoga, un metodo diffuso a livello globale, grazie alle migliaia di insegnanti che si sono formati proprio nei suoi teacher training. I capi d’accusa a lui imputati sono: “sexual misconduct” (relazioni con studentesse e staff), abuso di droghe (marijuana in dosi massicce) e frode sulle pensioni.
Entrambi gli insegnanti esercitano ancora e conducono teacher training, seguitissimi, e questo mi pare un dato interessante per la discussione che stiamo per affrontare.
Tornando allo spettacolo dal vivo, è recente la denuncia contro una delle personalità più influenti e amate dalla critica: Jan Fabre. Venti danzatori, ex collaboratori della compagnia da lui fondata, hanno deciso di scrivere una lunga lettera nella quale si parla di comportamento sessista e inappropriato, di come l’umiliazione fosse parte della quotidianità. Pare che il regista avesse l’abitudine di mortificare le donne con commenti sul loro aspetto e comportamenti apertamente sessisti. A coronare il quadro anche le accuse di molestie sessuali, in seguito alle quali qualcuno avrebbe avuto bisogno di un sostegno psicologico per far fronte ai traumi subiti.
Gli artisti sostengono di essere stati spinti a parlare proprio dal clamore suscitato dal movimento #metoo. La paura di ritorsioni, però, è tanta che soltanto otto compaiono con il proprio nome e cognome, mentre gli altri hanno sottoscritto la denuncia in forma anonima.
Non tarda ad arrivare la risposta italiana a questo caso, che porta la firma di “Il Campo Innocente”, un gruppo di artisti e lavoratori dello spettacolo, che hanno pubblicato una lunga lettera nella quale ci si interroga se la presunta genialità di un artista possa valere come lasciapassare per comportamenti che non rispettano la dignità della persona. Inoltre spiegano come nella dichiarazione degli artisti belgi, si parli di relazione tra abuso e salari bassi, tra molestia e assenza di un welfare che garantisca diritti e tutele ai lavoratori dell’arte, che nella precarietà economica si rivelano più esposti nelle relazioni professionali. All’imposizione del sistema patriarcale in cui all’artista-genio tutto è permesso, “Il Campo Innocente” risponde con due domande lapidarie ma fondamentali: è davvero necessario fare violenza per creare? Davvero non si possono creare lavori di qualità altrimenti? In pochi giorni questo testo ha raccolto più di 600 sottoscrizioni, tra cui spiccano nomi molto conosciuti nell’ambito della scena contemporanea.
Infine, recentemente è tornata alla ribalta la questione dell’Accademia di Danza di Vienna, vicenda di cui avevamo parlato già ad aprile 2019, proprio qui su DHN, all’indomani della pubblicazione sul NYT dell’articolo più accurato e dettagliato che finora sia mai stato pubblicato sull’argomento. Qui si parla di umiliazione e di violenza fisica e verbale ai danni degli studenti della scuola di ballo, che sono tutti minorenni. Per alcuni di loro si parla di graffi, calci, osservazioni sulla forma fisica che avrebbero indotto qualcuno a cadere nella trappola dei disturbi alimentari, e pare ci sia anche un caso di molestia. Le indagini hanno portato all’individuazione degli insegnanti che potrebbero aver svolto il loro lavoro con un eccesso di zelo, per essere diplomatici, e da qui gli allontanamenti.
Cosa hanno in comune tutte queste storie? Relazioni malate tra persone che ricoprono ruoli di potere, abusandone, e vittime che per qualche motivo hanno scelto di non esercitare la libertà di dire di no. Non giudicate, per favore, perché ogni storia è unica e laddove una persona non riesce a creare dei confini di protezione attorno a sé, c’è un cuore ferito e incapace di difendersi da solo. Evitiamo di cadere nella banalità del male, quella banalità per cui si crede che una donna che è stata uccisa dal marito avrebbe dovuto lasciarlo prima. O sia stata stuprata perché era vestita in modo appariscente.
È da piccoli che costruiamo una nostra idea di cosa sia il mondo e di quale sia il nostro posto in esso, quale sia una relazione sana e quale invece una relazione basata sulla dipendenza o sulla sottomissione. Nei primi anni della nostra esistenza impariamo a costruire quei confini, e riconoscendoli possiamo decidere chi far entrare e chi no.
Quando fin dall’infanzia siamo in una relazione insegnante-allievo totalmente sbilanciata, ad esempio, nella quale pensiamo di meritare umiliazioni, punizioni fisiche e violenza psicologica, e crediamo che questo sia necessario ai fini dell’apprendimento, anzi crediamo che questo sia il modo in cui il maestro ci premia con la sua attenzione, ecco…è molto facile che questi schemi si ripropongano anche in età adulta.