Lia Courrier: “La ripetizione è uno strumento formidabile e la danza classica richiede di ripetere i movimenti migliaia di volte per poterne affinare l’esecuzione e la comprensione”

di Lia Courrier
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Ogni tanto mentre guido i miei studenti di danza nelle pratiche di yoga, vengo raggiunta da messaggi che mi giungono direttamente dal campo collettivo che costituiscono con le loro presenze, le loro storie, i loro pensieri. Qualche giorno fa ho proposto una breve sequenza di movimenti a creare un anello ripetibile all’infinito, per invitarli a scoprire come il potere inerziale della ripetizione possa guidare il corpo e come allo stesso tempo possa divenire un’efficace ancora per la mente.

Dopo qualche istante ho notato che qualcuno di loro si era fermato e dopo qualche minuto in cui stavamo fluendo nella ripetizione della sequenza, poco più della metà della classe era ancora in movimento, gli altri si erano arresi a quella che apparentemente potrebbe essere scambiata per fatica fisica ma che io so bene essere un cedimento della concentrazione.

Propongo spesso questo genere di sollecitazione, conoscendo gli schemi psichici dei nativi digitali so quanto la ripetizione sul lungo termine possa essere sfidante per le loro menti avide di stimoli. La capacità di rimanere focalizzati per un certo tempo è la difficoltà più grande per le nuove generazioni e questa non vuole essere una critica ma soltanto l’osservazione di un fatto che credo sia ormai sotto agli occhi di tutti.

Argomento, questo, che dovrebbe figurare i cima alla lista di ogni discussione sulla formazione poiché comprendere come funziona la mente di un nativo digitale può aiutare noi adulti ad adottare strategie efficaci per sostenerli nell’apprendimento, da attuare parallelamente su due livelli: il primo riguarda un andare incontro alle nuove necessità di una mente agile, veloce ma che si distrae spesso. Il secondo, cercare di contrastare questa tendenza consegnando loro strumenti per stabilizzare la capacità di focalizzare la propria attenzione a lungo su un solo oggetto di osservazione.

Viviamo in un’epoca in cui il consumismo ha raggiunto l’apice, diventando una vera e propria strategia di vita che non riguarda più solo l’aspetto materiale della nostra esistenza, ma è prepotentemente penetrata anche nel territorio del cuore-mente: consumismo delle idee, dei concetti, delle persone, delle relazioni. Esiste anche un consumismo della spiritualità che promuove salvezza e trascendenza in una sola, catartica seduta con sedicenti operatori energetici che ti “aprono” i chakra e attivano la kundalini. So che questa sarebbe una discussione da proporre ad un auditorio di insegnanti di yoga, ma credo sia indicativo per comprendere fino a che punto siamo arrivati con la mercificazione e monetizzazione di ogni aspetto della nostra esistenza. Tutto viene consumato velocemente, divorato senza neanche assaporarne la fragranza, ci si ingozza di stimoli e mentre si cerca di ingurgitare quello che ci siamo ficcati in bocca a forza,  stiamo già pensando a cosa potremmo ingoiare dopo, proiettati verso il prossimo lauto pasto.

Questa iper stimolazione ha abituato le nostre menti ad un’attitudine passiva, come se fossero scatole da riempire il più possibile, ma che sembrano avere il fondo bucato perché ad un certo punto, per fare spazio a tutto ciò che di nuovo viene infilato ogni giorno, lasciano uscire qualcosa da sotto. Si ha la sensazione di apprendere, di imparare tante cose, ma senza attendere il tempo necessario per elaborarle, digerirle e assimilarle, queste diventeranno solo escrementi psichici abbandonati da qualche parte al nostro passaggio, dimenticati.

È positivo e meritevole voler imparare tante cose, avere sete di migliorare e di conoscere, ma saltare da un luogo all’altro come api sui fiori, rappresenta un movimento orizzontale che si espande sempre di più e sempre più lontano dal nostro centro, uno sforzo vano, se non accompagnato da un moto che si spinge verso le profondità. Nelle prime esperienze con un nuovo apprendimento siamo ben disposti, curiosi e osserviamo le nuove informazioni portare a risultati tangibili. Più si va avanti nello studio e più la curva diventerà piatta se non discendente, questi momenti rappresentano le fasi in cui si evidenziano luoghi di attrito, resistenze, da affrontare imparando a stare con quello che c’è, senza cambiare oggetto di studio per cercare nuovi stimoli e appagare il piccolo ego.

È necessario riconoscere questo schema quando si propone, quando la mente ci dice: “lascia perdere questa cosa, sta diventando noiosa, guarda lì ce n’è un’altra nuova e certamente più interessante” e provare a resistere a questo richiamo. La ripetizione è uno strumento formidabile a questo scopo e la danza, specialmente la danza classica, va un po’ in controtendenza perché richiede di ripetere i movimenti migliaia di volte per poterne affinare l’esecuzione e la comprensione. Questo è forse uno dei motivi per cui si fa sempre più fatica a portare avanti i corsi di danza classica oltre una certa età.

Tuttavia anche qui si è insinuata l’attitudine della mente ingorda, molti danzatori si spostano velocemente da un insegnante all’altro, da un coreografo all’altro, bruciano le tappe, desiderano risultati immediati, si spazientiscono a ripetere la stessa indagine per più di due volte, bramosi di fresche novità ogni giorno. Le produzioni ormai hanno durata esigua, spesso si va in scena dopo una manciata di settimane di prove e magari in un gruppo di persone che non si sono mai viste prima.

Questo non accade per tutti, ovviamente, i coreografi che vengono sostenuti economicamente e ben inseriti nel tessuto culturale del territorio di solito amano ancora prendersi il tempo per lasciare che il processo creativo segua il suo corso e il risultato finale è evidente: le produzioni “fast food” sono superficiali, non c’è profondità drammaturgica e neanche coreografica, mentre quelle che hanno potuto godere di una gestazione organica e sufficientemente lunga hanno il profumo e la complessità della vita stessa, sono opere che possono essere lette a più livelli e che arrivano allo spettatore in modo inequivocabile perché in questo processo si sono spogliate di tutto il superfluo, mettendo a nudo il nucleo vitale del messaggio. Possono piacere o meno, a seconda del proprio gusto personale, ma ciò che arriverà in scena sarà indiscutibilmente il risultato di un grande lavoro di introspezione per dare risposte a tutti i “perché”.

Da anni mi chiedo perché le poltrone di una sala teatrale non mi richiamino più a sé come una volta, per assistere alla mia adorata arte. Credo che da qualche tempo la danza sia arrivata ad un bivio: o si decide ad abbracciare un profondo processo di trasformazione oppure non vedo margine per evolversi ulteriormente nella direzione che ha preso, così focalizzata alla performance fisica, esterna, totalmente avulsa dalla funzione spirituale, interna, che è quella più strettamente e antropologicamente legata al rito del teatro.

Non è detto che tutto ciò che è nuovo sia meglio di quello che c’era prima, nonostante il progresso tecnologico sia oggi celebrato come uno straordinario passo in avanti nell’evoluzione dell’umanità (ma ancora esistono le guerre, la sottomissione dei più vulnerabili e l’ambiente è totalmente compromesso, sebbene la maggior parte di noi continui con le proprie abitudini distruttive per sé stesso e per la natura, ma questa è un’altra storia). Quello che sento in questo momento è che per andare avanti sia necessario tornare indietro, riscoprire l’attrazione verso la profondità che può essere una fascinazione fatale, non per tutti, dal momento che guardare in questi abissi richiede notevole coraggio e attrezzi interiori appositi per non venirne fagocitati.

Credo sia indispensabile smettere di usare l’arte e la spiritualità come l’ennesima distrazione di massa per consumatori ricchi e annoiati (sul panorama del mondo questa descrizione ci calza a pennello), in cerca di forti emozioni per uscire dal torpore e invece pretendere che si ritorni ad apprezzarle per il loro valore originario, in relazione al rito, alla condivisione, alla realizzazione di un percorso umano e divino.

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