Osservando il balletto classico sui palcoscenici del mondo in occasione di spettacoli, gala e concorsi internazionali, un dettaglio emerge prepotentemente: la tecnica ha raggiunto livelli fino a qualche decennio fa inimmaginabili. Credo fermamente che questa evoluzione sia dovuta in buona parte all’introduzione di specifici allenamenti funzionali nel training dei ballerini, nonché alla presenza di figure fortemente specializzate provenienti dall’ambito delle pratiche somatiche, calisteniche, arti marziali, programmi di allenamento, profondi conoscitori del corpo che hanno aiutato i professionisti della danza a migliorare le prestazioni in termini di forza, esplosività e controllo, proteggendo al contempo la struttura da infortuni.
L’estrema flessibilità dei corpi sulle copertine delle riviste specializzate, con articolazioni al limite dell’anatomia umana e linee mozzafiato, sono fondamentalmente un dono di madre natura. La selezione dei corpi nel balletto ormai guarda ad un potenziale del tutto sovrapponibile a quello delle ginnaste, ma senza una forza muscolare adeguata e la consapevolezza di come utilizzare correttamente quella caratteristica, il corpo non durerebbe a lungo mentre con il supporto e il sostegno di un allenamento specifico pensato per chi possiede ipermobilità e lassità articolare è possibile non solo permettere al danzatore o alla danzatrice di utilizzare pienamente il proprio potenziale ma anche di preservarlo.
A mio parere, però, non è nell’ambito della mobilità il dato più sconcertante del progresso tecnico raggiunto dai ballerini. Neanche nei salti degli uomini, sebbene siano sempre più sorprendenti, poiché anche tra le stelle del passato ci sono incredibili saltatori di cui abbiamo testimonianza video e anche qualche mito di cui ci rimane solo il racconto delle cronache del tempo, come il leggendario Nijinsky che ne “Le Spectre de la rose”, come un capriolo, sormontò con un grand jeté la spalliera della poltrona di scena per uscire dal palcoscenico lasciando il pubblico esterrefatto.
Il dato più sconcertante oggi è per me la tecnica delle pirouettes, specialmente per le donne. Bisogna considerare che la modalità di fabbricazione delle scarpette da punta è molto cambiata negli anni, grazie anche alle indicazioni delle prime ballerine e delle étoiles che hanno permesso alla scarpa da punta di diventare un vero e proprio strumento di precisione al servizio delle professioniste. Ogni ballerina, infine, ha un proprio modo personale di condizionare le scarpette a seconda delle proprie esigenze: dalla posizione in cui vengono cuciti i lacci e gli elastici, al trattamento delle soletta, della mascherina e della punta, grattando, tagliando, piegando, cucendo, strappando. A volte è quasi crudele vedere il trattamento che viene riservato alle scarpette da punta, così amorevolmente realizzate dai sapienti artigiani che da secoli si tramandano questa tradizione ma si tratta di un processo essenziale che non può essere realizzato da altri, solo le ballerine sanno di cosa hanno bisogno.
La tecnologia della scarpa, dall’utilizzo dei materiali alla forma, ha certamente aiutato a migliorare la stabilità, unitamente a tutta una serie di esercizi e allenamenti specifici, con utilizzo di attrezzi, mirati a sviluppare una migliore propriocezione e sostenere lo sviluppo di equilibrio e stabilità non solo nell’area della caviglia e del piede ma in tutta la struttura.
Poi chiaramente esiste una predisposizione naturale all’azione di girare, una certa familiarità innata nella naturalezza con cui il corpo trova la corretta coordinazione e dinamica per eseguire questo movimento, però quello che vedono i miei occhi oggi è qualcosa per cui non ero preparata.
Ho sempre amato girare e credo di possedere una certa predisposizione, mi piaceva girare veloce negli enchainment in manége o diagonale così come eseguire fouettés en tournant oppure sospendermi nella pirouette di un adagio, cercando di dargli quella fragranza di dilatazione temporale sul finale. Eppure nelle giornate migliori non riuscivo a fare più di quattro giri e quando capitava c’era da sparare i mortaretti in cortile e stappare una bottiglia per festeggiare. A quei tempi le danzatrici americane cominciavano a mostrare i primi segni di questo cambiamento, come Joyce Cuoco, famosa per i suoi equilibri e le interminabili pirouettes al punto che i passi delle coreografie erano appositamente ridefiniti per lasciarle il tempo di girare o di sostenere la sospensione di una posa. La vidi una volta all’Arena di Verona e onestamente non potevo credere a quello che stavo guardando. Nel suo caso bisogna dire che aveva una fisicità particolare, brevilinea, incredibilmente tonica e anni dopo alcuni colleghi mi dissero che utilizzava delle particolari scarpette con la punta molto larga (all’epoca in commercio erano quasi tutte con la punta stretta). Seppi anche che aveva già sviluppato un personale metodo per condizionarle in modo che stessero in piedi da sole, appoggiandole a terra.
Al di là della performance di quella sera, che non mi aveva coinvolta perché troppo focalizzata su questo genere di virtuosismo, possiamo dire però che i primi semi di questo cambiamento erano già nell’aria, portati dal vento d’oltreoceano dove, senza il peso della storia e della tradizione sulle spalle (a differenza di noi europei) molte belle cose erano state fatte per spingere la danza tutta verso il nuovo millennio.
Oggi vedo persino giovanissime ballerine, anche di 16 o 17 anni, che sembrano (per citare un divertente commento scritto da un’amica digitale) imparentate col Girmi, come la onnipresente super social Melanie Mcintire, da me vista per la prima volta al Prix de Lausanne, amata e odiata in modo ugualmente sentito dal pubblico tutto della danza, che in diversi video compare nell’atto di eseguire anche più di dieci pirouettes. Non è l’unica, moltissime giovani ragazze eseguono a colpo sicuro giri strabilianti persino mentre modificano la posizione di braccia e gambe e magari concludendo queste prodezze perfettamente in equilibrio. Vedo anche ballerine che, cronometro alla mano, si sparano anche un minuto e più di equilibrio in arabesque e altre simili amenità. I social traboccano di questo genere di contenuti.
È doveroso a questo punto ribadire che la danza non è questo, l’arte del movimento si esprime altrove e non in questi virtuosismi ma nell’eleganza del gesto, nell’espressività del corpo, nella musicalità, nella radianza della presenza scenica, tutti noi lo sappiamo bene, però al pubblico il virtuosismo piace, le platee si incendiano quando un danzatore esegue qualche incredibile prodezza. In realtà le variazioni del repertorio nascondono molte insidie ben più ardue che fare tante pirouettes ma il pubblico spesso neanche se ne accorge perché i ballerini sono così bravi da eseguire tutto con grande naturalezza e se non si conosce la tecnica della danza classica non si è in grado di individuare questi passaggi da veri maestri.
Fare un piques arabesque e rimanere lì per dieci secondi, invece, arriva dritto al pubblico come qualcosa di straordinario e ormai nei gala si può assistere molto spesso a questo genere di smargiassate che tuttavia richiedono comunque grande controllo, forza e sangue freddo, nonché quel senso del rischio a creare una tensione drammatica tangibile che provoca quel brivido tanto amato dal pubblico, forse meno dagli addetti a lavori. Una volta ho letto un commento di un danzatore che, dopo aver assistito a questo tipo di esibizione, ha detto: “sono venuto qui per vedere la danza, non una posa” e non posso che essere d’accordo con questa persona.
Ora, però, vorrei che qualcuno mi svelasse il segreto per eseguire decine di pirouettes affinché possa trasmetterlo ai miei allievi così che anche loro possano imparentarsi col Girmi!