Poiché finora ho sempre insegnato in programmi di formazione professionale, ho sempre apprezzato vedere gli allievi a lezione con una tenuta adeguata allo studio della danza classica. Non necessariamente una divisa, mi piace lasciare che scelgano qualcosa in cui sentirsi a proprio agio, non c’è cosa migliore per fare lezione al meglio. Credo sia didatticamente formativo avere in una classe, soprattutto per i giovanissimi, una certa pulizia, un’omogeneità estetica che è parte di quella etichetta del balletto di cui abbiamo parlato tante volte. Non si tratta di una semplice questione formale, questa attenzione racchiude in sé parte dell’essenza stessa della disciplina che si sta studiando.
La tenuta accademica per le donne, è costituita da un leotard, calze rosa, un gonnellino (opzionale), scarpette e capelli raccolti in uno chignon, mentre per gli uomini calzamaglia (con indosso sospensorio) e maglietta aderente. Nessun gioiello ammesso, se non un punto luce al lobo e nessun trucco, se non qualcosa di invisibile. Questa austerità, e il fatto che gli abiti coprono ben poco del corpo, che deve essere visibile, per correggersi e per consentire al maestro di correggere, può essere percepito come traumatico o invasivo. Ci si sente vulnerabili, troppo esposti allo sguardo degli altri e al proprio, con tutti i dettagli del corpo che vengono messi in luce e il movimento che diventa inesorabilmente visibile in ogni suo particolare. Io stessa ricordo ancora un mio esame di fine anno, durante la formazione, per il quale la nostra maestra scelse il rosa confetto per le divise, un colore che certo non dona a chi ha una corporatura un po’… tondina, diciamo. Fu una tortura guardarmi allo specchio con indosso quel vestito, nonché affrontare un esame con quella sensazione fastidiosa addosso, ma anche una prova importante per tenere a bada il mio ego e la sua emanazione più atroce, il giudice interiore, perché più volte sul palcoscenico mi è capitato di dover indossare costumi non proprio adatti alla mia fisicità.
Il nostro lavoro è fatto anche di questi aspetti, non secondari: il più delle volte il nostro strumento viene abbondantemente esposto, per questo è necessario costruire un rapporto quotidiano e costante con il proprio corpo, imparare a conoscerlo, ad amarlo, ad accettarlo esattamente così com’è.
Nelle giornate invernali ovviamente, per una parte della sbarra, concedo agli allievi di tenere indosso qualcosa di caldo nei primi esercizi, e non sto neanche a dire come vengono bardati, ma non appena possibile chiedo di togliere tutto per poter sentire, ed osservare anche attraverso lo specchio, il modo in cui il corpo appare e si muove. Con tute larghe e magliette penzolanti non è possibile vedere le linee, pulite e svuotate da ogni orpello che possa in qualche modo falsare la percezione di ciò che stiamo facendo. Con i capelli in disordine non potremo dare uno scatto di testa efficace per la pirouette, senza ricevere una frustata negli occhi dalla coda di cavallo legata alla carlona con un elastico. Indossando solo dei calzini anziché scarpe da mezza punta, non solo rischieremo microtraumi osteoarticolari a livello del piede e infiammazioni dolorose, a causa del diretto contatto del piede con il pavimento, non svilupperemo la forza necessaria nelle dita, e neanche la capacità di girare con la giusta fluidità.
Non sono una purista a tutti i costi, ma una inguaribile ribelle, come sanno bene i miei studenti, però sono consapevole che la relazione con il proprio corpo è qualcosa di troppo delicato e profondo da potersi costruire direttamente sulla scena quando un coreografo ci chiede di danzare coperti solo da dieci centimetri di stoffa. È molto meglio coltivare giorno per giorno questo dialogo, abituandoci ad una relazione di intima vicinanza con il nostro strumento, osservandolo con occhio non giudicante, con i suoi limiti e le sue meraviglie, perché nasconderlo dentro ai vestiti vuol dire prima di tutto fingere con noi stessi, ficcare la testa sotto alla sabbia, procrastinare il lavoro. L’abitudine a studiare in abiti consoni, che ci mostrano per quello che siamo, nudi e crudi, è un’ottima palestra in questo senso, anche per rivelare l’essenza più pura della nostra danza.
Ogni volta che, nelle occasioni importanti, i miei studenti arrivano ben vestiti e pettinati, la loro danza cambia, e loro lo percepiscono, ma nella quotidianità poi ricadono sempre nella tendenza di nascondersi dentro fiumi di stoffa. Ovviamente qualora qualcuno avesse bisogno di più tempo per abituarsi all’idea di studiare in tenuta accademica, bisogna rispettare i suoi tempi, poiché non sappiamo cosa sta attraversando a livello emotivo, ma l’obiettivo rimane quello di liberare il corpo dal giudizio. Sarà opportuno allo stesso modo astenersi da ogni commento pubblico sulla forma fisica, che sia elogio o critica, per non creare disagio in classe. In pochi diventeranno professionisti dello spettacolo dal vivo, ma tutti, proprio tutti, hanno il diritto di godere del piacere di danzare, se questo è il loro desiderio. Il nostro compito è di sostenerli e aiutarli a lasciare che la danza si esprima, si muova da dentro a fuori, e per non interferire con questo delicato processo è necessario astenersi da sguardi o parole giudicanti, anche senza avere quell’intento, perché una volta entrati in quello stato è impossibile la libera espressione. Bisogna fare molta attenzione a come ci poniamo nei loro confronti perché, anche se a volte non sembra, gli studenti sono attentissimi e percepiscono ogni sfumatura nelle parole che diciamo e persino in quelle che non diciamo.