Lia Courrier: “Le audizioni che non vanno bene e il modo in cui si reagisce a quell’evento”

di Lia Courrier
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Provengo da una famiglia in cui ci sono diversi formatori,  persone che hanno dedicato gran parte della propria vita alla trasmissione, alla condivisione, che con grande senso di responsabilità hanno abbracciato questa missione al punto da considerare un privilegio occupare quel posto. Non mi sorprende, a guardare la mia vita da dove mi trovo adesso, come ogni aspetto dell’insegnamento sia per me argomento di grande interesse, credo fermamente come, per essere all’altezza di questo ruolo che la vita ci ha consegnato, sia necessario non smettere mai di farsi domande, per poter essere quel supporto di cui gli allievi hanno bisogno.

I tempi cambiano sempre più velocemente e ogni anno che passa la distanza culturale che mi separa dagli studenti diventa sempre più considerevole, così è inevitabile scontrarsi con nuovi problemi da risolvere, percorsi da trovare, o da creare, connessioni da riformulare, nuove basi da gettare.
Da tempo nel mondo della formazione si parla di quel fenomeno che vede le nuove generazioni refrattarie all’insuccesso, al rifiuto, ai vari “no”, aspetti intrinseci della vita stessa, a cui nessuno – proprio nessuno – può sottrarsi. Questa tematica diventa particolarmente importante nella formazione coreutica, dal momento che, prima di arrivare a salire un palcoscenico, un danzatore deve necessariamente attraversare diverse fasi preliminari, tra cui l’audizione, un primo importane contesto in cui imparare a gestire la relazione con le proprie emozioni.

Abbiamo costruito una società fortemente competitiva, in cui viene dato valore assoluto al risultato, molto meno al processo che precede quel risultato o al modo in cui quell’obiettivo è stato raggiunto. Pochissima considerazione viene data al punto di partenza da cui si è partiti. Secondo questa scala di valori, quello che ne viene fuori è una società fortemente dualista che divide i buoni dai cattivi e i bravi dalle schiappe, senza guardare alle sfumature e alle peculiarità che fanno dell’essere umano una specie estremamente variegata per talenti, anatomia, psiche e molto altro.

Le audizioni sono spietate, in questo senso: hai una manciata di ore per dimostrare quello che sai fare, cercando di intuire ciò che il coreografo (o il regista) sta cercando, andando incontro alle sue richieste, alle necessità. Non importa da dove vieni, né dove andrai, quello che importa è riuscire a sfruttare al meglio quel preciso, relativamente breve lasso di tempo e,  con un po’ di fortuna che non guasta mai, potresti anche essere tra i prescelti.

Sono tantissimi i giovani che oggi seguono formazioni professionali in giro per il mondo, e l’hummus internazionale è ricco di creatività e saperi, i danzatori sono sempre più giovani e competenti e non è certamente facile emergere in sede di audizione, quando magari la produzione è alla ricerca di soli due danzatori tra centinaia di candidati e tu sei per loro solo un volto anonimo tra la folla.

Se guardiamo questo contesto peculiare con l’occhio che vede il bicchiere mezzo pieno, però, notiamo anche che ricevere un rifiuto alle audizioni non ha un significato assoluto, lapidario, e non dovrebbe essere vissuto come un dramma o portare a drastiche conclusioni. Il rifiuto alle audizioni può voler semplicemente dire che quel giorno non sei riuscito a dare il massimo, che stavano cercando un sostituto per uno spettacolo e tu non hai le caratteristiche giuste, che il coreografo ha in mente un personaggio con una cifra creativa diversa dalla tua o che la sua idea estetica della danza non si sposa con la tua qualità di movimento. Questi e altri mille motivi possono spingere la commissione di una audizione a scartare anche danzatori di valore, che in un’altra situazione invece saranno visti e selezionati come meritano.

Partendo dal presupposto che chi ha intrapreso un percorso professionale e lo abbia portato avanti fino alla fine, sia detentore di quello che si chiama “mestiere”, sebbene in forma acerba e bisognosa di esperire la vita di compagnia e della scena per sbocciare, il venire rifiutati ad una audizione dovrebbe progressivamente essere percepito come un aspetto imprescindibile del lavoro stesso, non certo il più piacevole, lo ammetto, ma neanche un evento per cui perdere la bussola.

Ovvio che, se su cinquanta audizioni non ne va bene neanche una, allora forse bisognerebbe cominciare ad accogliere l’idea che la vita ci voglia comunicare qualcosa, ma anche quello fa parte del gioco: può capitare che nella foga di sviluppare a tutti i costi talenti che non abbiamo, inibiamo la capacità di vedere quelli che invece possediamo per nascita.

Ma cerchiamo di venire al punto cruciale della mia riflessione, quella che riguarda il nostro ruolo e il sostegno che possiamo dare a questi giovani germogli in crescita. Osservo spesso negli adulti una certa tendenza ad una eccessiva protezione nei confronti dei ragazzi, come se li si volesse salvare dalle porte in faccia mettendo un cuscino un attimo prima del colpo, nel tentativo di evitare loro il dolore che provoca sentirsi rifiutati; questo è impossibile, perché in ogni ambito dell’esistenza l’energia si muove attraverso le due polarità primarie di attrazione/repulsione, per proteggerli dai rifiuti bisognerebbe chiuderli in una torre d’avorio e isolarli dal mondo, ma questa non sarebbe una vita degna di essere vissuta.

Insieme a questa tendenza ne esiste un’altra, ai miei occhi conflittuale, per cui gli adulti proiettano aspettative spesso esagerate e sovradimensionate sui giovani, pretendendo da loro percorsi di realizzazione lineari, che mal sopportano cambi di rotta, intoppi, bocciature, fallimenti. Dai racconti provenienti dal mondo scolastico si sprecano episodi in cui le famiglie e la scuola vengono allo scontro per un voto considerato troppo basso per il proprio figlio.

A questo punto mi chiedo: questo tipo di atteggiamenti possono essere una delle cause della difficoltà delle nuove generazioni a venire a patti con il fallimento come parte integrante del processo di crescita, come elemento essenziale che guida la realizzazione stessa della persona nella scoperta di sé e del proprio progetto di vita?

Non si rischia così di dare troppa importanza al no, al rifiuto, nutrendo il lupo cattivo (parlando per archetipi, perché non esiste un lupo cattivo), quello che ti sbrana il cuore, quando sarebbe molto più semplice accettare la presenza di questo aspetto dell’esistenza, serenamente, cercando di farne tesoro per le scelte e le azioni future?

Non è certamente un processo semplice, tantomeno indolore, diverso per ognuno. Essere scartati a una audizione non è piacevole in ogni caso: sia che tu sia stato eliminato al primo round o che arrivi alla fine per poi essere scartato. Nella mia esperienza credo di aver capito che non sia un buona idea andare ad una audizione aspettandosi di essere selezionati, perché questo getta troppe aspettative sul risultato e influisce anche sulla qualità della danza. Ma non solo: modificando la propria prospettiva nei riguardi dell’audizione (ma anche di qualsiasi altro momento in cui siamo messi alla prova), è possibile tornare a dare valore al processo, a considerare questo un terreno di indagine, momento di crescita e formativo, per imparare a conoscere sé stessi e imparare a dare il meglio anche in situazioni stressanti. Questo consente di tornare comunque a casa con un risultato, qualunque sia, anche la semplice scoperta che il tipo di linguaggio coreografico di quella data compagnia non è adatto a noi,  e che forse è meglio volgere il proprio sguardo altrove. Estremizzando, potremmo anche scoprire che il nostro posto non è sulla scena ma altrove: dietro le quinte, ad esempio, come assistente, oppure nel portare il linguaggio del corpo in ambito sociale o terapeutico.

Così come si allenano i muscoli, come si allena la capacità di avere una mente focalizzata, allo stesso modo ci si può allenare a ricevere dei rifiuti senza perdere la propria autostima. Come? Ricevendoli senza che nessuno cerchi di attutire il colpo, di indorare la pillola, perché la nostra vita non viene condizionata da ciò che ci succede, ma dal modo in cui reagiamo a quegli eventi.

Imparare a fare questo con il sostegno di persone che hanno avuto già esperienza di ciò, in un ambiente protetto e accogliente, come dovrebbe essere quello della formazione, potrebbe essere un buon modo per preparare gli studenti a ciò che li attenderà in futuro, anziché cercare di bypassare certi processi che potremmo considerare obbligatori. Questo si può fare creando delle tavole rotonde in cui affrontare queste tematiche insieme, specie in occasione di eventi didattico-artistici che replicano questi schemi selettivi, come possono essere ad esempio l’assegnazione delle parti in uno spettacolo, la selezione di un gruppo scelto per una masterclass o un seminario a numero limitato di partecipanti. Momenti importanti, a mio parere, in cui si viene in contatto anche con questo aspetto del lavoro, così caustico, abrasivo, ma onnipresente nella vita di tutti, non solo di chi calca la scena.

Non dico che si possa arrivare al punto di essere contenti per il successo degli altri, perché quella in fondo è una chimera anche per gli adulti, ma permettere almeno ai ragazzi di sviluppare, attraverso l’esperienza, quegli strumenti che consentano loro di accusare il colpo mantenendo però gli obiettivi saldi davanti a sé.

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