La danza è un’arte, e in quanto tale la componente estetica occupa un posto preponderante, persino nei danzatori che si dichiarano totalmente emancipati dalla questione: dopotutto infine la danza viene concepita, creata, costruita e impacchettata per essere confortata dalla presenza di un testimone, altrimenti presto si stanca di mostrarsi, non ne trova ragione e significato. Vive se ci sono occhi a guardarla, allora può concedersi di esistere attraverso un corpo danzante, ma solo per fugaci istanti poiché, non appena cessa il movimento, di quella danza non rimane che una risonanza nel corpo di chi l’ha eseguita, nello sguardo di chi l’ha osservata, nello spazio che l’ha accolta.
Dover continuamente rispondere alle richieste estetiche che la danza ci impone, sebbene personali ma comunque presenti, sottintende un grande lavoro quotidiano, poiché per raggiungere un buon livello di precisione, sicurezza e armonia sulla scena, bisogna essere zelanti e un po’ maniacali anche nello studio. Da qui nasce quella tipica intransigenza del danzatore, verso sé stesso e spesso anche nei confronti degli altri, nell’azione costante di ambire ad un ideale di perfezione. Questa attitudine, però, non è da considerarsi sempre un buon proposito, perché potrebbe inibire il senso del rischio, la curiosità che spinge verso territori ancora non praticati, costringendoci nei rigidi confini che il Sé giudicante impone, con il suo divieto categorico di oltrepassarli, per timore di sporcare la tanto desiderata esecuzione perfetta. I ballerini soffrono spesso di quella che io chiamo ‘sindrome da primo della classe’, una forma di vero e proprio fastidio epidermico per l’errore e l’incertezza. Quando a lezione anche una piccola pecca si presenta, vedo i loro visi contrarsi in una espressione a metà tra disgusto, severità e disincanto: ecco comparire la maschera del giudizio, che continua a tormentare con quella sua vocina petulante, a dire loro che non sono capaci.
Si può forse pretendere di essere perfetti in scena, mentre durante lo studio l’errore non solo accade, ma rappresenta anche la miglior occasione di crescita possibile. Per questo mi piace scherzare con loro, quando sbagliano e vedo comparire la maschera, ricordandogli che io stessa non avrei ragione d’esistere se fossero sempre perfetti, pregandoli di darmi motivazioni per poter fare il mio lavoro. Tengo però a precisare, per non essere fraintesa, che il nostro obiettivo rimane sempre quello di perfezionarci sempre più, di affinare le nostre abilità di danzatori, non sto affatto dichiarando che bisogna essere felici nella reiterazione dell’errore o se non si raggiungono dei risultati in termini di qualità. Dico però che non è produttivo essere così intransigenti con sé stessi, almeno nella fase di esplorazione, quando ci si trova nel processo per spostare i propri limiti un po’ più in là. Una ricerca, questa, che non riguarda tanto l’estetica del movimento in sé, quanto piuttosto l’essenza peculiare di ogni danzatore: un’azione che implica un dirigersi verso qualcosa che si muove più in profondità. Per compiere questo cammino può rivelarsi utile ammorbidire temporaneamente questa idiosincrasia nei confronti dell’errore, dettata da un amore per la precisione che nelle giuste dosi è un alleato formidabile, ma se portato all’estremo può provocare frustrazione e un approccio allo studio cieco, sterile, poco malleabile e non disposto ad accogliere il nuovo, l’inatteso.
Un approccio alla danza, insomma, che non guarda alle potenzialità personali ma solo alle manchevolezze. Che guarda alla forma e non all’essenza, che non è nella forma.
Abbiamo detto tante volte quanto il balletto, oggi, si stia focalizzando molto sulla quantità: più estensioni, più mobilità articolare, virtuosismi portati all’estremo, salti acrobatici, giri infiniti, un atletismo fino a qualche decennio fa sconosciuto in ambito ballettistico, mentre altri aspetti di questa nobile arte, altrettanto importanti, sono quasi passati in secondo piano. Comprendo come tutto ciò si sia fatto strada all’interno del nostro immaginario legato alla danza, così quando posiamo le mani sulla sbarra, i modelli di riferimento che quotidianamente abbiamo davanti agli occhi, ridisegnano l’idea stessa e l’immaginario che sta alla base della nostra danza, alimentando il senso di inadeguatezza, così qualsiasi piccola imperfezione nella nostra danza sembrerà essere lì proprio per mostrarci i nostri limiti. Quando osserviamo un allievo sprofondare in questa spirale discendente, che toglie la gioia di danzare e rende ogni piccola sfida una montagna da scalare, possiamo aiutarlo a spostare il punto di osservazione, mostrandogli l’errore non come una macchia indelebile nel candore della sua danza, quanto come una vera opportunità, una risorsa, il modo in cui la danza stessa ci indica dove lavorare. Spingere gli allievi a provare più strategie, per esempio, alla ricerca di una strada propria e personale per eseguire quel movimento, mantenendone l’estetica e la dinamica, può essere un buon modo per superare l’ostacolo e nel contempo aumentare la fiducia nel proprio potenziale.
In questo modo l’ostacolo diventa la leva che utilizziamo per superarlo, e si innesca un virtuoso cambio di punto di vista su come affrontare gli intoppi in modo creativo e vincente, che sosterrà lo studio negli anni a venire.