Una volta avevo chiesto ai miei amici danzatori di scrivermi le frasi pronunciate dai loro maestri in classe che più li avevano feriti. Per rompere il ghiaccio e incoraggiarli avevo scritto quella che era stata detta a una me quindicenne, da parte di una persona che ancora oggi insegna danza e che probabilmente non si ricorda neanche di avermi riservato queste parole, perché quando l’uso della violenza verbale e dell’umiliazione come strumento didattico diventa un’abitudine, non ci si accorge neanche più del peso di ciò che si dice.
Quella frase era: “ma tu perché non te ne torni in Sicilia a fare figli, con quel fisico lì? Quello è il tuo posto.”
Mi è rimasta come un tatuaggio nel cuore, non potrò mai dimenticarla, ma non provo rancore o rabbia nei confronti di chi l’ha pronunciata, perché alla fine io in Sicilia non ci sono tornata (nulla contro la mia amata terra, ma così è andata), figli non ne ho avuti e ho fatto della danza il mio lavoro. Nonostante tutto, nonostante gli anni difficili che sono seguiti a quella e ad altre umiliazioni e violenze psicologiche subite durante la formazione, nonostante la discesa nel disturbo alimentare e il deperimento. Una storia, la mia, come quella di tante altre, ma non per questo meno meritevole di essere raccontata.
Un altro coreografo mi disse una volta, in sede di audizione, allungandomi il suo biglietto da visita: “chiamami quando sei tisica.” Avrei potuto rispondergli che in quel caso forse sarebbe stato meglio chiamare un medico, ma in quel momento ero così fragile e che ho preso quel biglietto da visita e me ne sono andata a piangere in spogliatoio.
In questi giorni la questione delle pressioni psicologiche in alcuni ambienti artistici e sportivi sta di nuovo emergendo alle prime pagine dei giornali, perché a parlare non è Lia Courrier, anonima insegnante di danza che scrive dalle pagine di un giornale di settore, ma nientemeno che le pluripremiate “farfalle” della ritmica italiana, orgoglio nazionale, che hanno aperto il vaso di Pandora su una realtà che la danza conosce molto bene.
Forse è un bene che io abbia perso quel file in cui avevo raccolto le frasi che mi erano state consegnate, lo considero un atto psicomagico averle messe tutte lì, un denso ammasso di ignoranza e frustrazione, per poi lasciare il documento andare verso una dissoluzione di dati fino a scomparire. Tutti coloro che le hanno ricevute e me le hanno consegnate sono stati così liberati da quel peso, me compresa. Meglio non leggere quelle parole taglienti come lame, che lasciano emergere uno schema nelle modalità, nel tono sarcastico, nell’insistente e logorante punzecchiamento con un unico obiettivo da parte di chi le ha pronunciate che non è certo quello di insegnare, ma di distruggere, ossia l’esatto opposto.
Meglio non leggerle perché altrimenti si rischia di cadere nella facile commiserazione verso tutte quelle povere ragazze (ma ci sono anche i ragazzi) che sono state sottoposte a un tale continua minaccia, la pesatura pubblica, i pizzicotti sul sedere, i commenti a lezione e quelli fuori dalla lezione, gli sguardi che a volte mi si appiccicavano addosso facendomi sentire nuda, brutta, inadatta, desiderosa solo di chiudere gli occhi e scomparire dalla faccia della Terra.
Bisogna andare oltre i sentimenti, comprendere quanto sia necessario far seguire azioni chiare all’indignazione della prima ora. Lo dico in modo diretto: nessuna carriera artistica, neanche la più sublime, alta, internazionale o interplanetaria, vale il sistematico annichilamento psichico e fisico della persona. Bisogna proprio che si faccia un cambio di prospettiva, adesso, per estinguere una volta per tutte pensieri come “se ti tratta male è perché ci tiene a te”, “per raggiungere alti livelli questo è il prezzo da pagare”, “questa è la strada che ti sei scelto, o così o lasci stare”.
Nessuno sceglie di rovinarsi la vita o di ammalarsi.
Si sceglie la danza, non la morte.
Tutto ciò che ci sentiamo portati a fare è solo per Lei e i carnefici sanno bene come usare le loro leve psichiche per affondare l’arma nella zona più vulnerabile, sono dei veri maestri in questo, molto meno nell’insegnare danza. L’insegnante che tratta male gli allievi e usa il proprio potere per sottometterli psicologicamente dovrebbe essere allontanato immediatamente dal ruolo che occupa. Essere autorevoli, anche severi, portare i propri studenti a impegnarsi al massimo, non richiede in nessun modo l’utilizzo di tali metodi ma lo sviluppo di empatia, competenza, gentilezza, generosità e pazienza. Ebbene sì: quando si è gentili e si crea un ambiente gioioso e collaborativo a lezione non solo si impara altrettanto (se non di più) ma si impara meglio e in modo più duraturo perché un allievo che viene rispettato è anche una persona in grado di rispettare sé stessa, i propri tempi e i propri limiti.
È incredibile essere ancora qui a parlare di questo.
L’integrità della persona è la priorità assoluta di chi insegna in generale, a maggior ragione chi trasmette una disciplina artistica perché l’artista si espone già al giudizio e alla critica del pubblico; per poterlo fare mantenendo il proprio equilibrio psicofisico la sua presenza ha bisogno di poggiare sull’integrità e non sul meccanismo della punizione o ricompensa. I tempi del bastone e della carota sono finiti. Comincia il tempo dell’assunzione delle proprie responsabilità: se pretendiamo che gli allievi si assumano coerentemente il ruolo che gli compete, anche noi abbiamo il dovere di assumerci quello di formatori.
Ai genitori consiglio di stare con gli occhi bene aperti se i vostri figli cominciano a mostrare cambiamenti preoccupanti, segnali che qualcosa li sta portando a perdere il proprio equilibrio come persone. Non importa che studino danza nella più piccola scuola di provincia o nella più ambita accademia del mondo: agite immediatamente. Se l’insegnante utilizza ripetutamente frasi offensive o comportamenti abusanti in classe segnalatelo alla direzione. Insieme possiamo ristrutturare l’ambito formativo della danza nettandolo da tutta questa miseria, che ha un impatto importante sulla vita delle persone, per sempre.
Non lasciate che l’attenzione data dai media a questo argomento finisca nel dimenticatoio.
Se qualcuno volesse raccontare la propria esperienza nei commenti o scrivermi in privato è il benvenuto
2 comments
Buongiorno Lia,mi permetto di rivolgermi dandoti del tu poiché attraverso i tuoi scritti sembra di conoscerti da sempre probabilmente per la comune”amica”danza.
Ti ringrazio per l’articolo di oggi e ti scrivo proprio perché l’ho preso come un dono…quasi un affrancamento dai tanti anni in cui è sempre risultato difficile far capire…ad altri…dentro cosa mi accompagna.
Io sono una di quelle tornate a casa(forse per fragilità o debolezza),mi son dedicata all’insegnamento e poi ho avuto i miei splendidi bambini per cui ringrazio Dio tutti i giorni(e dopo tutto ciò che ho fatto patire al mio corpo e alla mia mente mi reputo fortunata ad averli avuti e ad aver raggiunto un equilibrio).
Oggi tu mi offri l’opportunità di aprire cuore e mente a ciò che è stato e che ha fatto si che la danza restasse nella mia vita ma purtroppo non nella mia quotidianità.
Sono cresciuta per tanti ,lunghi anni con un insegnante capace di farmi sentire profondamente inadeguata anche se la cosa non è servita a farmi demordere,ero legata a lui da un rapporto che si alternava tra idolatria e rifiuto.
Non sono mai stata una dotata di natura ma tenace anche se lo specchio era il mio peggior nemico.
Poi è arrivata l’Accademia e il crollo totale…nonostante avessi faticato tanto le pressioni della mia docente di danza classica mi rendevano una pallina che rotola in discesa.
Più venivo pizzicata,manipolata,offesa,mortificata (al non trucco mi preferiva truccata ma se mi truccavo per lei potevo fare il “varietà “) e più il mio corpo si lasciava andare,vacillavo,dimagrivo e scaturivo il suo nervosismo eppure quella donna avrebbe dovuto insegnarmi qualcosa.
L’unica cosa che mi lasciò all’epoca fu la sua indifferenza,le mie lacrime di ventenne,la preoccupazione della mia famiglia e la chiusura totale ad ogni genere di emozione.
Fu capace di tramortire il mio entusiasmo,quello in cui avevo sempre creduto …poi scelsi la danza…non la morte!
(Ricordo che mi fissai piangente e impietosita da me stessa nei bagni dell’accademia e mi dissi a denti stretti che tutto quello che stavo vivendo non mi avrebbe ammazzata).
Il mio rientro a casa fu l’inizio di un processo di recupero che ho dovuto affrontare con un grande lavoro su me stessa a cui oggi guardo con grande orgoglio ma che vorrei fosse evitato a chi non può avere la fortuna di essere sorretto,capito in tempo,aiutato come è avvenuto per me.
Se solo l’insegnante…e l’insegnamento è stato per me unguento curativo,capisse e percepisse l’allievo come “non suo” ma qualcuno di facilmente plasmabile non solo nel bene ma purtroppo anche nel male…nei difetti,nella stitichezza di atteggiamenti ed empatia ci sarebbe forse più sensibilità.
Bisognerebbe tenere a mente ed educare al fatto che dietro corpi e fisicità ci sono fragilità, vissuti e alle volte anche crepe che andrebbero viste,tutelate e perché no sanate ove possibile.
Sperando in tempi di rinascita per la danza…quella bella,quella vera e dell’arte…quella sana e universale ti saluto con riconoscenza, stima e ammirazione.
Grazie…Giordana
Mi dispiace per la sua esperienza. Ho un po’ d’anni più di lei e ho studiato con gente severa,ma mai mortificante probabilmente perché era felice di ciò che faceva. Ho insegnato a tutte le mie allieve ad essere eque e ho visto solo gente che di ripiego ha fatto l’insegnante mortificare gli altri,purtroppo più d’una in posizione di rilievo. Io sono stata fortunate. Buon lavoro