Viviamo in tempi difficili in cui la pratica della conversazione (parola cui origine etimologica latina indica proprio l’azione di dimorare con l’altro, trovarsi insieme, incontrarsi) è passata di moda per lasciare posto solo al dibattito e al conflitto, modalità di relazione implicitamente legate a strategie belliche.
Questa seconda vita della rete internet si presenta molto diversa da quelle che erano le premesse iniziali quando fu autorizzata anche per uso civile, con prospettive di libertà, gratuità e possibilità di comunicazione fino a quel momento inimmaginabili.
Ricordo com’era il mondo prima di internet, l’impatto che il suo arrivo ebbe sulla mia vita è stato prodigioso su molti aspetti dell’esistenza. Per molti anni la sensazione che potesse davvero aiutarci a sentirci più vicini, a condividere informazioni, a navigare in un luogo senza confini è stata percepita da molti, ma poi purtroppo gli interessi, il potere e il profitto hanno inquinato anche questa possibilità e oggi l’utilizzo che facciamo di internet (beninteso lo strumento in sé rimane formidabile), specialmente i social, sta producendo un effetto contrario dividendo, polarizzando le opinioni e isolando le persone che lentamente si arroccano sempre più dentro alle proprie idee e credenze, dando per scontato che ogni interlocutore sia un emerito deficiente che non dovrebbe avere neanche diritto ad esprimere la propria opinione. Non si tenta più neanche di ascoltare l’altro perché mentre questi esprime la propria argomentazione si sta già pensando a controbattere per sminuire, confutare, contraddire.
Anche internet appare quindi come l’ennesima occasione persa per connetterci non solo con il cavo o con le onde elettromagnetiche del wi-fi per trasmettere dati, ma soprattutto con i cuori.
La danza non è avulsa da questa tendenza, tanto più che la maggior parte degli artisti sono, chi più chi meno, degli inguaribili narcisi che amano stare al centro dell’attenzione e bramano l’approvazione altrui. Sui social vedo tanti contenuti in cui danzatori e maestri di danza consegnano, almeno così dicono, l’unica e la sola versione corretta per eseguire un movimento oppure sostengono che nella “vera” tecnica un dato movimento si chiami così e chi dice diversamente è un ignorante.
Quando si parla di danza classica non si dovrebbe parlare al singolare ma al plurale: le tecniche. Questo perché si tratta di un vocabolario codificato di movimenti che si è sviluppato molti secoli addietro e nel corso di tutto questo tempo ha viaggiato, si è contaminato con tante culture, visioni esistenziali, contesti storici e socio-politici.
Nel corso del suo viaggio la danza classica ha stratificato tantissime informazioni che hanno dato vita a diverse metodologie, grazie a didatti e ricercatori che ne hanno dato una versione sempre fresca e nuova nonostante poi il syllabus sia rimasto pressoché lo stesso: Enrico Cecchetti, Agrippina Vaganova, George Balanchine, il metodo francese, quello inglese, quello cubano e tutto ciò che arriverà nel tempo a venire perché la danza classica è viva e vitale e continua ad evolversi. Forse si è conclusa la stagione dei grandi didatti (chissà, potrei sbagliarmi) ma oggi questa forma d’arte ha scelto di accogliere tante competenze provenienti da altri settori della ricerca somatica per raggiungere nuovi obiettivi e basta guardare le odierne stelle della danza per rendersi conto del livello performativo a cui il corpo umano oggi è giunto nell’espressione del movimento danzato.
In questa lunga evoluzione è accaduto l’inevitabile, ossia la convivenza di istruzioni diverse per l’esecuzione dello stesso movimento o addirittura che venga nominato in modo differente a seconda del metodo a cui si fa riferimento e questa caratteristica di complessità della danza classica può essere divisiva tra colleghi, quando non si riesce a guardare il disegno più grande.
Mi piace immaginare le tecniche della danza classica come fiumi che vanno ad alimentare un unico mare, confluendo in un luogo in cui non importa come chiami un passo o quali siano le istruzioni che hai ricevuto per impararlo ma che sia ben eseguito, funzionale, efficace e significativo per la scena e la drammaturgia. Personalmente trovo persino limitante avvalermi di una sola tecnica perché ogni lascito dei grandi Maestri contiene saperi importanti, vari livelli di profondità, e poiché i nostri allievi rappresentano un campione della biodiversità della specie, è utile conoscere più visioni per avere diverse chiavi da utilizzare in diverse serrature, fino a trovare quella giusta che funzioni per quella specifica persona. L’unica cosa di cui mi rincresce è l’impossibilità di conoscerle ed esplorarle tutte, quello che posso dire è che nella mia esperienza con maestri di diversa provenienza mi sono resa conto quanto informazioni diverse abbiano potuto non solo convivere nel campo percettivo ma addirittura sostenuto la profondità con cui la mia conoscenza della danza si è evoluta.
Nella tecnica americana, ad esempio, è indicato di sollevare i talloni nel demiplié per dare più ampiezza ed efficacia alla “molla” del pliè ma questo farebbe rabbrividire i sostenitori di altre tecniche i cui quei talloni devono stare rigorosamente a terra. Oppure l’esecuzione dei battements frappé, che possono prevedere il cou del pied “abbracciato” o con la caviglia in dorsiflessione, più la variante americana che esula da queste possibilità e ne vaglia una tutta sua. Sempre parlando di cou de pied potrei citare l’esempio della partenza per il développé che nella maggior parte delle tecniche prevede il cou de pied avanti o dietro a seconda della direzione in cui si esegue il retiré mentre la tecnica americana prevede che il développé avanti o alla seconda parta da un cou de pied abbracciato che sale verso il retiré per poi sviluppare la gamba in aria nella direzione richiesta.
Impossibile non parlare delle pirouette en dedans che possono essere eseguite con la tecnica della partenza attraverso un battement alla seconda che poi va in retiré oppure tire-bouchon (cavatappi), in cui la gamba va direttamente in retiré nel modo più rapido possibile. Gli esempi potrebbero riempire un’intero volume ma mi fermo qui, quello che mi preme ribadire è che nessuna di queste versioni è errata, si tratta di piccole ma sostanziali differenze che non vivono in una relazione di mutua confutazione ma rappresentano strategie che possono essere studiate, esplorate, sondate dai danzatori per poi scegliere quella che più si confà alle caratteristiche morfologiche e fisiologiche di ogni corpo, all’indole espressiva verso cui si vuole tendere. Ogni danzatore, a prescindere dall’impronta iniziale della propria formazione, è il risultato delle esperienze che ha accumulato e dei maestri con cui ha studiato, dei piccoli trucchetti che ha scoperto da solo o confrontandosi con i colleghi.
Quando contempliamo questo grande mare di informazioni con mente aperta ci rendiamo conto che mantenere separate queste tecniche in stanze a tenuta stagna ha un senso relativo. Certo, per i principianti sposare una sola visione sola è utile per non confondere, ma quando si va avanti nello studio è cruciale aprirsi a visioni diverse che possano aumentare il numero di strumenti da tenere nella cassetta degli attrezzi.
Persino Natalia Makarova quando fuggì dalla Russia (durante un tour a Londra nel 1970) dove era già una ballerina affermata e famosa anche per aver vinto premi importanti, scelse di aprirsi alle tecniche occidentali, arricchendosi di quelle competenze che hanno infine trasformato la ballerina nella leggenda.
Dico, se persino lei si è dimostrata così priva di pregiudizi e curiosa….
1 commenti
Ottimo articolo