Eccoci all’ultimo numero della stagione di SetteOtto, prima della pausa estiva.
Un anno, quello che ci lasciamo alle spalle, che dire complicato non rende l’idea.
Ma soprattutto: ce lo stiamo davvero lasciando alle spalle?
È recente la notizia che probabilmente saremo in stato d’emergenza fino al 31 Dicembre 2020, forse il 31 ottobre, una notizia sconvolgente non tanto per la questione sanitaria ancora irrisolta, che risulta evidente dal momento che – almeno in Lombardia, dove vivo – abbiamo ancora mille milioni di precauzioni e comportamenti da adottare solo per mettere il naso fuori dalla porta di casa, per cui è impossibile dimenticare quale tipo di situazione stiamo affrontando. Mi sconvolge l’idea che si possa dichiarare alla stampa che si sta prendendo in considerazione questo tipo di azione, ma specificando che ancora non c’è nulla di certo.
Ma allora perché dirlo e gettare tutti nel panico, dico io?
Questo terrorismo mediatico a cui ormai gli scribacchini, gli imbrattatori di carta che chiamiamo giornalisti ci stanno abituando, fa coda alle sconvolgenti dichiarazioni della (nientepopodimenoche) OMS, che su una notizia Ansa di qualche settimana fa tuonava: “il peggio deve ancora venire”. A questo si aggiungono le dichiarazioni contrastanti dell’ambiente medico, i cui portavoce a volte sembrano vivere in due universi paralleli: nuovi contagi sì, nuovi contagi no, dichiarazioni e smentite che si susseguono rapide, gettando tutti nella confusione più totale e aspettandosi che ancora ci si possa fidare di quello che raccontano.
Il panorama che si prospetta davanti è una reiterazione senza fine di una vita scandita dai famosi decreti, questi documenti pomposi scritti con il linguaggio degli alieni, che ogni volta devono essere interpretati dalle Regioni, prima di capire – in sostanza- se il giorno dopo potrai lavorare o meno.
Non voglio minimizzare il rischio sanitario che si corre in queste ore o con il ritorno del clima più freddo, in questi mesi ho utilizzato tutte le precauzioni del caso, anche quelle di cui dubito fortemente della loro efficacia, l’ho fatto e continuo a farlo ogni giorno per poter usufruire di quel poco di spazio vitale che mi viene concesso e perché non vivo sola ma insieme ad altre persone che meritano che io rispetti il loro spazio e i loro timori.
Come tutti, però, ho anche perso innumerevoli ore di lavoro, ho perso relazioni, contatti, occasioni. La perdita economica è stata solo una piccola parte (sebbene importante per la sopravvivenza) del danno enorme che la sospensione ha creato. Noi tutti abbiamo affrontato questa prova con grande presenza, di punto in bianco abbiamo sospeso le nostre vite perché abbiamo percepito che era l’unica cosa da fare in quel momento.
Però credo anche che bloccare il paese per un intero anno (e non per due mesi, come era stato previsto all’inizio) significhi uccidere non solo l’economia, ma la rete delle relazioni tra le persone: pare proprio che il distanziamento SOCIALE, concetto che è stato ripetuto fino alla nausea, sia infine diventato realtà.
Nelle prime settimane tutti speravano che questa esperienza potesse farci rivalutare le priorità nella scala di valori di una società sana e democratica, ma purtroppo mi pare che non siamo proprio andati in quella direzione. Tutto ciò che ha a che fare con il virus Covid-19 è diventato argomento fortemente divisivo, dalle persone comuni fino alle alte sfere della virologia. Ognuno si è chiuso a riccio nella propria posizione, nelle proprie credenze e nelle paure, senza lasciare alcuna breccia per la possibilità di un dialogo, e purtroppo senza accogliere un contraddittorio, difficilmente si andrà verso la soluzione, o meglio, verso i tanti cambiamenti da apportare in diversi ambiti della nostra esistenza, che possano aiutarci ad uscire da questa pesante crisi e scongiurarne una nuova.
Le scuole di danza sono realtà che si basano sulle relazioni tra le persone, sull’aggregamento sociale, su quel senso di comunità che ne rappresenta il cuore pulsante, ancora prima delle conoscenze tecniche, artistiche e creative degli insegnanti e degli allievi che ne fanno parte. Alcune hanno deciso di riaprire direttamente a settembre, mentre altre hanno tentato di dare una conclusione a questo anno difficile, un po’ per un senso di responsabilità verso tutti coloro che avevano in sospeso abbonamenti e tesserini, e un po’ anche perché ci è stato dato il permesso di farlo, quindi perché non approfittare?
Tutte le procedure di sicurezza hanno certamente creato separazione laddove invece l’unica medicina guaritrice sarebbe stata la condivisione, la vicinanza, anche fisica, soprattutto per i ragazzi più giovani, che sono stati – credo – i più colpiti da questa situazione: isolati gli uni dagli altri, con l’impossibilità di stare insieme ai propri amici o ai propri amori. Ma ci si abitua a tutto, se è necessario farlo, e quindi ci siamo tutti impegnati ancora una volta a trovare nuovi strumenti (dopo la rivoluzione digitale delle lezioni su zoom) per poter fare il nostro lavoro mantenendo le distanze, senza poter correggere gli allievi con il tocco, senza poter abbracciare nessuno, in alcuni casi persino con la mascherina indosso, a creare ulteriore divisione.
Si è tornato in sala, insomma, ma non con la gioia che ci si aspettava di provare, perché lo spauracchio è sempre presente, non si può avere quella libertà che per il danzatori è una linfa vitale, senza la quale ogni gesto diventa una specie di surrogato, di brutta copia dell’originale.
Qualcosa di forzatamente finto e per nulla spontaneo.
Andrebbe tutto bene, se queste regole fossero imposte a tutti, perché questo vorrebbe dire che sì, si sperava fossero solo due mesi e mezzo e invece probabilmente saranno dieci, però se si tratta di un sacrificio che si fa insieme per una giusta causa, magari con informazioni precise e attendibili a sostegno dell’utilità di questa scelta, posso accettarlo e fare la mia parte.
Però, onestamente, non mi spiego perché il campionato di calcio è ripartito, certo a porte chiuse, ma in campo i calciatori fanno contatto, si sudano, si alitano e si sputano addosso. È stato persino dichiarato che, anche se ci fossero dei casi di contagio tra i giocatori, il campionato non si ferma più.
Perché loro possono e noi no?
Perché i calciatori in campo e i bambini a casa dalla scuola, con la prospettiva di rientrare con indosso le mascherine per tutto il giorno?
Forse i calciatori sono immuni?