Lia Courrier: “Perché la danza non è popolare come il calcio?”

di Lia Courrier
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Perché la danza non è popolare come il calcio?

Perché dopo una prima di balletto non viene voglia di andarsene in giro per la città strombazzando con l’automobile, a rotta di collo per le vie del centro?

Non è una domanda provocatoria la mia, e so benissimo che sono due attività che non possono neanche lontanamente essere paragonate. Nessuna delle due è meglio dell’altra, sono semplicemente diverse, ma mi chiedo questo, e lo chiedo a tutti voi che leggete, perché quando ero piccola la danza era molto diffusa, si studiava danza, si andava a teatro a guardare il balletto, e tra il pubblico non c’era solo chi praticava ma anche e soprattutto estimatori, quella fetta preziosissima di pubblico di cui oggi si sente una gran mancanza. Ad un certo punto, non si sa perché, o forse non ce lo siamo chiesti abbastanza, il calcio assurge a unico collante di un intero popolo, mentre la danza, questa cenerentola, spazza palcoscenici davanti a platee vuote.

La risposta che mi sono data oggi, e che non è la stessa di ieri o quella che potrei dare domani, è che una società basata sulla competizione, fin dai banchi scolastici, riceve dall’agonismo, da quella pratica in cui un vincitore batte il perdente, una bella scarica di adrenalina e di tutti quegli ormoni che tanto ci fanno sentire vivi e reattivi. La gara agonistica risveglia forse una parte di cervello antica, ma non per questo meno raffinata o meno importante, attenzione a non fraintendere, ma che si nutre di questo semplice dualismo: vincere o perdere. Tra queste due polarità tutto ciò che si può umanamente mettere in gioco per raggiungere l’obiettivo unico e irrinunciabile, ossia vincere, portarsi a casa il premio. Per un giorno, o per un secondo, chiunque può sentirsi illusoriamente parte attiva di quella vittoria, prima di tornare ad una quotidianità fatta di abitudini e sedentarietà varie (non solo fisiche).

La danza è un’arte, nulla di tutto questo. Non ci sono vincitori o vinti, ma solo la capacità di un corpo-mente-spirito di sublimare la materia e divenire pura energia per raccontare una storia. Nessun agonismo, nessuna lotta all’ultimo sangue, se non contro te stesso. Nessuna traccia di quella aggressività rettiliana che può scatenare una lotta su un campo da gioco, ma solo un punto di vista sull’esistenza che richiede attenzione, richiede anche di guardarsi dentro, di compiere uno sforzo intellettivo.

È rappresentativo che una delle discipline coreutiche che va per la maggiore tra i giovani sia l’Hip Hop, la street dance di cui tutti noi conosciamo la storia: un modo per lottare danzando anziché impugnando un’arma. Anche qui l’arte arriva per sublimare la materia, e per portare tutto in u altrove mentale e esperienziale, ma si tratta comunque di un linguaggio in cui il concetto di sfida permea ogni movimento, in cui ogni gesto è indirizzato all’avversario, per prenderlo in giro, ridicolizzarlo, sfidarlo e infine batterlo con un movimento talmente strabiliante e spettacolare da non lasciare spazio ad ulteriori repliche.

Forse la mia è un’analisi troppo antropologica, ma il corpo è lo strumento più antico che possediamo, ed ogni sua manifestazione è uno specchio di questa lunga storia che stiamo percorrendo tutti insieme, generazione dopo generazione. Ogni cosa che facciamo con il corpo è un aspetto di ciò che siamo e di ciò che stiamo diventando. Mi piacerebbe comprendere le ragioni del perché l’interesse per la danza si stia spegnendo inesorabilmente, magari siamo ancora in tempo per farla riemergere dalle sue stesse ceneri.

Ma bisogna comprendere.

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