Lia Courrier: “Quando preparo le lezioni, visualizzo nella mia mente un “omino motorio” che esegue i movimenti. Capita anche a voi?”

di Lia Courrier
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Questa settimana voglio condividere con voi qualcosa che mi riguarda molto da vicino e che racconta tanto dell’insana relazione che mi lega alla danza da che ne ho memoria, dalla prima volta che ho messo il naso dentro a questo mondo. Da allora sono stati tanti gli anni in compagnia di questa mattacchiona di Tersicore, ormai abbiamo superato i 30 anni, la più lunga storia d’amore della mia intera esistenza e nel corso di questo tempo è avvenuto un profondo processo di interiorizzazione della danza al punto in cui oggi posso immaginarla, visualizzarla nello schermo della mia mente con grande efficacia, precisione e appagamento.

Quando preparo le lezioni non ho bisogno di muovere il corpo, mi basta visualizzare nel campo della mia mente un non meglio identificato “omino motorio”, dalle fattezze evanescenti ed estremamente stilizzate, che esegue i movimenti e in quel luogo nascosto, interiore, dove costruisco le sequenze che poi si materializzeranno, una volta giunta in sala, attraverso il corpo dei miei studenti. Non è mai accaduto finora che una sequenza creata in quel mio spazio privato nel regno dell’immaginazione non abbia poi funzionato nel contesto fisico e condiviso con la classe.

Sono certa che questa sia un’esperienza condivisa con molti di voi lettori, se siete insegnanti di danza. L’esperienza lunga e reiterata con il movimento danzato sviluppa nel tempo specifiche aree del cervello che ci consentono di produrre questa attività senza sforzo, anzi, per me oggi è la modalità naturale e spontanea per creare le sequenze coreografiche, il corpo fisico viene solo dopo, in un secondo momento.

Quando ci apriamo ad una panoramica sulle pratiche somatiche, scopriamo che questo processo di immaginare un movimento prima di eseguirlo fisicamente è contemplato da tecniche, come ad esempio accade nel Feldenkrais.

Moshé Feldenkrais (il metodo porta il nome del suo inventore) era uno scienziato sovietico (nato in quel territorio che oggi chiamiamo Ucraina) naturalizzato israeliano. Il suo campo era inizialmente la fisica ma poi ha proseguito con una specializzazione in ingegneria cibernetica ed era anche un praticante di arti marziali. A seguito di un infortunio al ginocchio, a partire dagli anni ’50 del secolo scorso, Moshé Feldenkrais comincia ad utilizzare le sue competenze in campo scientifico per formulare un metodo rivolto al corpo (che vide poi una diffusione di grande successo a partire dai decenni successivi) mirato a riorganizzare i pattern di movimento e le connessioni neurali, chiarire le relazioni spaziali e temporali sia interne che esterne (in relazione all’ambiente) in una moltitudine di tematiche che vanno dal camminare, girarsi, sedersi, guardare, ecc. Insieme a Ida Rolf, Elsa Grinder e Alexander, giusto per citarne alcuni, questi pionieri hanno contribuito enormemente alla diffusione dell’idea di unità tra mente e corpo.

Ebbene, una delle indicazioni che spesso ho ricevuto nella mia esperienza di praticante con questo metodo, era proprio quella di visualizzare inizialmente il percorso nella mente e soltanto dopo, quando la visualizzazione raggiunge una qualità di chiarezza, dettaglio e fluidità nel campo sottile, percorrerlo con il corpo fisico. Da allora forse questo semino mi si è piantato in profondità, facendo germogliare poi quell’omino che mi tiene compagnia e mi assiste nel lavoro ormai da tanto, tantissimo tempo o forse sarebbe arrivato comunque, chissà, l’unica cosa che posso dire è che questa prassi funziona alla grande.

Mi accorgo solo ora mentre scrivo di non avergli mai dato un nome proprio ma di averlo chiamato in questi anni solo “omino motorio”, un po’ come il tenente Colombo chiama il suo cane semplicemente “Cane” perché non ha trovato un nome migliore da dargli. Questo omino, insomma, è con me da così tanto tempo che ad un certo punto ha cominciato a prendere iniziativa venendomi a trovare anche quando non sono io a richiedere la sua presenza.

Più tempo passa e più l’”omino motorio” diventa sfacciato e invadente. Ad esempio mi capita molte volte alla sera, nel momento in cui sto per scivolare dolcemente tra le braccia di Morfeo, con ogni fibra del mio corpo pronta a lasciarsi cadere nel riposo di guarigione, che questo dispettoso si faccia vedere e cominci a propormi delle sequenze. A volte mi mostra cose estremamente interessanti e nuove, forse perché in quello stato di quasi abbandono del controllo razionale la creatività è libera e prolifica, fatto sta che inevitabilmente attira la mia attenzione ridestandomi e obbligandomi a giocare con lui, con i passi e con la musica. Quando accade è impossibile prendere sonno e così non mi resta che trascorrere ore ad occhi chiusi ripetendo quella sequenza fino a che non arrivo ad una conclusione soddisfacente e finalmente crollare addormentata per poi magari, la mattina dopo, non ricordare più nulla di quella febbrile e appassionata ricerca.

Ma non finisce qui. A volte viene a fare capolino anche nei sogni. Mentre sono impegnata a barcamenarmi all’interno di un sogno che riguarda tutt’altro, l’”omino motorio” arriva e irrompe portando la mia attenzione altrove, interrompendomi bruscamente e facendo sparire il sogno che stavo facendo fino ad un attimo prima. Devo ammettere che anche lui, come tutti gli artisti, è un po’ narciso e ama stare al centro della mia attenzione, non gli va bene che io sia presa da altre storie, utilizza furbescamente il fatto di conoscere molto bene le mie debolezze e quando fa il suo ingresso, persino in astrale, sembra proprio che io non abbia occhi che per lui e per le sue sequenze. Mi capita, appena sveglia, di correre a cercare carta e penna per prendere appunti, perché magari ho sognato proprio quello che stavo cercando da giorni oppure qualcosa di particolare per stimolare la prontezza o la musicalità degli studenti.

Non danzo ormai da molto tempo. Non su un palcoscenico e davanti ad un pubblico, intendo. Danzare si danza sempre non si può smettere di essere dei danzatori perché si tratta di un modo di essere e di guardare al mondo, il fatto di non essere più sul palco non ha spento questa mia natura, l’ha solo spostata in un altro luogo, interno, dove tra l’altro posso eseguire (o meglio, far eseguire al mio “omino”, ma in fondo è un po’ la stesa cosa, il confine tra me e lui è molto labile) tutti i movimenti che la mia mente riesce ad immaginare, il che rende queste danze solitarie estremamente divertenti.

Non so se qualcuno là fuori ha il proprio “omino motorio” come me, ho voluto condividere questa storia proprio per valutare a quale grado la mia ossessione per la danza sia giunta. Se ci siete battete un colpo, fatemi sentire meno sola, sono certa che nel mondo ci sia un esercito di omini che assistono gli insegnanti di danza nella creazione di lezioni, saggi, coreografie e chissà quali altre follie danzanti rimangano nel segreto di quel palcoscenico immaginato, forza, fatevi avanti, raccontatemi dei vostri compagni di lavoro!

Immagine di Keith Haring dal titolo RETROSPECT

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